chi sono Alessio Brandolini
 
che cosa ho scritto

Poesie della terra
LietoColle, Faloppio (Como), 2004

Poemas de la tierra
traduzione e cura di Martha L. Canfield
LietoColle, Faloppio (Como), 2004

Antologia della critica

Dodici Poesie della terra tradotte in sloveno da Jolka Milič

Quattordici Poesie della terra tradotte in portoghese da Geraldo Holanda Cavalcanti

Due Poesie della terra tradotte in francese da Viviane Ciampi

Due Poesie della terra lette dall'autore



Prefazione di Mario Santagostini

L'apparente (solo apparente, e vedremo meglio perché) dolcezza elegiaca della poesia di Brandolini, a una prima lettura, mi ha ricordato il Bertolucci più giovane, quello di Sirio e Fuochi in novembre, capace di concentrare in spazi verbali assai ristretti lievità e intensità, limpidezza di dettato e, nello stesso tempo, affascinante nel suo mantenere una quota di inafferrabilità tesissima, di mistero.
Risalendo ancora più indietro (al lettore compete anche questo, credo), potrei intravedere una costellazione assai vasta di influssi. L'idea-guida della "terra", in fondo, ci porterebbe a Pascoli, ai grandi modelli della poesia occidentale. Eppure, Brandolini non è il tardo, estremo epigono dell'immensa, italicissima tradizione bucolica o ctonia. La terra, il lavoro che essa chiama a fare e che Poesie della terra descrivono con competenza, con cura e puntualità pignola (accuratezza pascoliana, verrebbe di nuovo da dire) non vanno certamente a far parte d'un quadro paesaggistico, meno ancora d'un idillio.
La terra di Brandolini va, in verità, lavorata e anche con rudezza: solo in questo modo acquista un valore umano, un senso. E chi la lavora compie una serie precisa di atti elementari, entra in possesso d'una sorta di gestualità, d'una memoria pratica collettiva che rinvia a operazioni, fatiche già compiute da altri. Il lavoro, quindi, porta lontano. Fa retrocedere, fa tornare indietro. Riconnette l'uomo di oggi con l'uomo d'una volta: è memoria in azione, è anamnesi. Dunque possiede una valenza altamente etica, conduce verso un mondo di valori stabili, perenni. E forse, è proprio la rappresentazione verbale della conquista (o la rinconquista) di un simile "fare" il fine specifico, l'ispirazione che anima la poesia di Alessio Brandolini. I cui versi ritornano ostinatamente alla terra al punto da apparire mossi da un ritmo interno ossessivamente identico, ricorrente: non c'è quasi mai, nelle sezioni, una chiusa secca, ultimativa. Piuttosto c'è un effetto di dissolvenza che crea attese, collega i frammenti.
La relativa, ricercata, quasi estenuata monotonia della scansione sembra rispondere e riconnettersi a una sorta di più vasto, assoluto "principio d'inerzia": la ricorsività che attraversa il poema (perché d'un poema si tratta, in fondo) è allora la struttura ritmica, la scansione più vicina possibile ai moti ctonici, all'alternarsi ripetitivo delle stagioni. E allora possiamo rileggere il poema come una sorta di itinerario di chi, inoltrandosi in una inattualità assoluta, quasi in un tempo e in un mondo della vita originario, tenta di raggiungere un se stesso più autentico, elementare, preculturale, liberandosi quasi asceticamente dal tempo presente. Dalle possibili scorie della modernità. Da ogni eventuale sua tossicità. Forse, anche dal dolore.

Presentación de Mario Santagostini

La aparente (sólo aparente, y ya veremos mejor por qué) dulzura elegíaca de la poesía de Brandolini, a una primera lectura, me recordó Bertolucci de joven, el de Sirio y Fuochi di novembre, capaz de concentrar, dentro de espacios verbales muy restringidos, levedad, intensidad y limpieza de expresión, siendo al mismo tiempo fascinante por saber mantener una cuota de tensa inaferrabilidad, de misterio.
Remontándonos aún más atrás (al lector le corresponde esto también, creo), podríamos entrever una constelación muy vasta de influencias. La idea-guía de la "tierra", en realidad, nos lleva a Pascoli, a los grandes modelos de la poesía occidental. No obstante, Brandoloni no es el tardío último epígono de la inmensa y muy itálica tradición bucólica o del submundo. La tierra, el trabajo que ella requiere y que los Poemas de la tierra describen con competencia, con una atención y una puntualidad minuciosas (atención pascoliana, habría que decir otra vez) no entran a formar parte por cierto de un cuadro paisajista, o menos aún de un idilio.
La tierra de Brandolini, en verdad, se trabaja realmente y con dureza: sólo de este modo adquiere un valor humano, un sentido. Y quien la trabaja cumple una serie precisa de actos elementales, entra en posesión de una especie de gestualidad, de una memoria práctica colectiva que remite a operaciones y a fatigas ya cumplidas por otros. El trabajo, por lo tanto, lleva lejos. Invita a retroceder, a volver atrás. Conecta al hombre de hoy con el hombre de antes: es memoria en acción, es anamnesis. Posee por lo mismo un valor altamente ético, conduce a un mundo de valores estables, perennes. Y es acaso, en efecto, la representación verbal de la conquista (o la reconquista) de semejante actividad la finalidad específica, la inspiración que anima la poesía de Alessio Brandolini. Cuyos versos regresan con obstinacíon a la tierra hasta el punto que parecen empujados por un ritmo interior obsesivamente idéntico, repetitivo: no hay casi nunca, en las varias secciones, una conclusión seca, terminante. Más bien hay efectos de disolvencia que crean expectativas, que conectan fragmentos.
La relativa, buscada y casi extenuada monotonía de la escansión parece responder y conectarse con una especie de "principio de inercia" más vasto, absoluto: el efecto de recurso que atraviesa el poema (porque de un solo único poema se trata, en el fondo) está entonces en la estructura rítmica, en la escansión lo más cercana posible a los movimientos de la tierra, al alternarse repetitivo de las estaciones. De modo que se puede leer el poema como el itinerario de aquel que, internándose en una inactualidad absoluta, en un tiempo y en un mundo casi de la vida originaria, trata de alcanzar su yo más auténtico, elemental, precultural, liberándose casi ascéticamente del tiempo presente. De los posibles residuos de la modernidad. De todo su tóxico eventual. Acaso también del dolor.


Introduzione all'edizione spagnola di Martha L. Canfield

La memoria dell'albero

Alessio Brandolini ha trovato nell'opera di un poeta che senza dubbio gli è affine, Franco Facchini, la riflessione che introduce e illumina la propria poesia: gli alberi sono "antichi pensieri / piantati nel respiro / eterni". Le Poesie della terra, in effetti, sono anche poesie degli alberi: in essi la parola trova un'oasi simbolica e un'immagine visiva confortante, di individualità riunite in una somiglianza trascendente, nella quale l'io mortificato della nostra epoca frenetica e globalizzante può finalmente fermarsi e riposare. Gli alberi sono la memoria ancestrale - "antichi pensieri" - in cui il lettore contemporaneo trova indicazioni sicure, sono una guida e un punto fermo nell'insicurezza preponderante dei nostri giorni.
La riflessione di Brandolini parte dalla terra. "La terra è ancora nostra", recita il primo verso della raccolta; ma questa presumibile compiacenza non si radica nel possesso materiale della terra, quanto piuttosto nella stretta relazione di reciproca appartenenza e dipendenza in cui il contadino si riconosce. Brandolini non è un contadino, o almeno smise di esserlo quando, a vent'anni, abbandonò il paese natale per studiare nella capitale e scelse per la propria vita uno spazio urbano e una direzione intellettuale, lasciandosi alle spalle la vita rurale e le abitudini familiari. Per questo la sua poesia, come forse la sua vita, compie un ciclo che in questa raccolta si ritrova nella linea circolare che parte dal secondo componimento (primo in realtà, se riconosciamo in quello che lo precede un'introduzione) fino all'ultimo. Ci dice, per cominciare: "È come se fossi arrivato / troppo tardi". E alla fine del suo percorso:

È come se dovessi ricominciare
tutto dall'inizio, dai primi
stentati passi.
Ora lo so e non aspetto altro.

Se il poeta intellettuale e urbano, in un determinato istante, ha voltato le spalle al mondo rurale, in un secondo momento egli ha però compreso che era necessario farvi ritorno. Per questo, come dice Santagostini, Brandolini non è, non può essere, l'epigono di alcuna tradizione bucolica. Egli è, semmai, poeta pioniere di una nuova tendenza - che l'ecologia e i movimenti ambientalisti del mondo applaudiranno - la quale riconduce la necessità razionale di un recupero dell'armonia con la terra, così urgente oggi a causa di una civiltà distruttrice e suicida, a un'emotività primigenia e naturale, quasi rarefatta dalla febbre della tecnologia. Se nel corso del XX secolo le voci poetiche che evocavano e cantavano il mondo rurale sono andate via via scomparendo man mano che le avanguardie esaltavano la macchina e la velocità e man mano che le città crescevano invadendo con il loro cemento i paesaggi naturali, oggi la fascinazione per la macchina ha lasciato spazio alla paura per la crescita indiscriminata della tecnologia e per le conseguenze nefaste che un potere incontrollato sulla natura potrebbe comportare. Nel mondo americano le voci degli aborigeni, che dopo secoli di oppressione cominciano a farsi sentire nella propria lingua e con la propria inalienata visione del mondo, cantano alla terra e tornano a proporre questa armonia ancestrale con la natura che non hanno potuto perdere. Per i poeti europei e, ad ogni modo, per i poeti di formazione urbana, cantare alla terra significa "tornare alla terra". Ed è questo che fa Alessio Brandolini: forse troppo tardi, ci avverte, per ricominciare dall'inizio. E tuttavia, come aggiunge nello stesso componimento, "meglio tardi che mai, / non è così che si dice?".
I riferimenti al presente, in questa serie di poesie intensa e breve, sono pochi e sempre tragici, forse perché il presente è ormai inseparabile da un'angoscia apocalittica che già aveva segnato la fine dello scorso millennio, e che apre quello nuovo con eventi catastrofici come l'attacco alle Torri Gemelle, la cui evocazione Brandolini non può evitare:

È come se fossi inchiodato
allo stesso divisorio orientale
o al grattacielo americano
che si disintegra con un boato.

Incubo apocalittico e colpa del genocidio atomico ("intere città cancellate") che viene a sommarsi all'angoscia della natura corrotta, maltrattata, e, probabilmente per colpa nostra, malata per sempre. Così gli alberi, che alzando le chiome maestose verso il cielo ci mostravano il cammino che unisce le radici con l'anima, l'immanente con il trascendente, adesso sembrano abbandonati ("sono stati abbandonati?" si domanda il poeta), "non hanno più nome / sotto la spessa corteccia / c'è solo un buco [...] un nido di muffa, di tarli". &Erave; la terra che soffre, e noi siamo causa della sua sofferenza: soffre, la terra, "priva com'è / di sostanza, e d'amore".
L'allarme giunge dunque proprio dalla terra, e l'efficacia del suo messaggio si palesa nella sensibilità che il poeta contadino - o ritornato contadino - recupera nel contatto con le creature della natura: alberi, cespugli, uccelli, foglie che giocano con il vento, frutti che pendono dai rami, strumenti antichi che sanno lavorare la terra accarezzandola. Osservata da vicino, la natura rivela la sua profonda umanità, che è in realtà la proiezione della nostra essenza naturale, l'esplicitazione di un'armonia in cui siamo stati - e possiamo forse tornare ad essere - creature di un regno non scisso, non punito, senza colpa e senza esilio, regno ancora prossimo alla radice divina del nostro essere creato.
Questa saggezza Brandolini la riceve direttamente dagli alberi: con essi dialoga, con essi intesse una relazione di fratellanza primordiale e di felicità senza ambasce: "I fichi hanno le dita larghe", osserva, e mentre le loro foglie sorreggono, magari trattengono, l'aria calda di giugno, "le vene scoppiano di gioia", senza che sia possibile sapere se per quelle vene scorre la linfa del fico o il sangue del poeta, o entrambi. Allo stesso tempo, le foglie del susino "giocano con l'aria" e parlano, per ore, senza tregua, e il poeta ascolta, e una zappa che lavora fino al tramonto accarezza la terra, sa come farlo, con perizia e amore.
La voce che ci sussurra queste poesie della terra - poiché si tratta senza dubbio di poesie cantate a bassa voce, riflessive, intime - proviene da un soggetto che prima di tutto ascolta. Gli alberi gli insegnano ed egli docilmente apprende, condivide le loro attese e i loro sogni, assimila la loro memoria millenaria, e insieme ad essi scopre la fraternità fondamentale della natura:

Mi sdraio sulla terra
compatta e inaridita
a lungo ascolto
i due ciliegi
per settimane
insieme
aspettiamo la pioggia.

I ventisei componimenti della serie costituiscono un itinerario di viaggio all'interno e all'indietro: all'indietro, ossia prima della confluenza tra modernità e macchina; e all'interno, ossia verso quella memoria ancestrale in cui radice naturale e stirpe contadina si uniscono per offrire un'immagine inedita del proprio volto. Questo percorso implica perciò un viaggio di scoperta e di conoscenza, un viaggio d'iniziazione a una nuova identità e, forse, a una nuova vita. Non può dunque mancare la figura esemplare e tutelare, e questa figura è quella del padre - quello stesso padre cui è dedicata la raccolta, ispiratore e destinatario privilegiato di queste equazioni in cui un'emotività sommersa e recuperata ha finalmente incontrato la via d'uscita nella parola.
Il padre appare fin dal principio come esempio e come guida, con il suo viso "dolce e tranquillo", allo stesso tempo familiare e arcano, come la natura di cui sembra essere emblema e parte, suddito e ambasciatore. Tra le sue mani vibra luminoso un sole, e il suo pensiero, semplice e profondo come gli alberi, sa legare la terra al cielo:

Allora non parli più
chini lo sguardo azzurro
scavi con gli occhi
un pozzo che se ne va
dritto verso il cielo.

La parola, nella sua espressione, si condensa in gesti e sorrisi che abbracciano periodi di tempo ampi come la vita, ed è per questo che in un momento essi possono rivelare la vita stessa:

Allora mi hai guardato
con un sorriso nuovo
quello che sogno
da quando sono al mondo.

Il padre incarna la figura tutelare in assoluto, e la sua complessità è confermata dall'identità femminile che intuiamo partecipare del suo essere, così come essa partecipa dello spirito degli alberi che allo stesso tempo serve e domina. Lo spirito della madre terra si manifesta nella capacità del padre di portare alla luce i frutti della terra, di curare e proteggere il suo frutteto, di riprodurre e alimentare. Di fatto, quando il figlio riconosce in lui abilità che vanno ben oltre il lavoro virile del contadino ("Le rose / le hai messe tu"), che hanno una gratuità e una bellezza graziosamente femminili, più che razionalmente utili, allora egli attribuisce queste abilità a un patrimonio di indubitabile matrice femminile:

Le rose
le hai messe tu
con gesti calmi
che da secoli
si tramandano
da madre in figlia.

Ciò nonostante, e malgrado l'intensa dolcezza di questa relazione, un mistero irrisolto e un'aria di tormenta aleggiano sui versi più belli di questa raccolta inquietante. La ragione di ciò, probabilmente, risiede nel dramma stesso del figlio che lotta dentro di sé sia contro una condizione di sradicamento dalla natura - inevitabile nel mondo meccanizzato in cui siamo nati - sia contro la stessa attrazione per la natura che, vista in un'altra prospettiva, può significare un allontanamento dai cammini precostituiti della nostra società (appunto) snaturata. L'evidenza del vivere sulle rovine di quello che fu un impero - l'Impero Romano - acuisce il dolore del tempo che trascorre allontanandoci da noi stessi e vanificando la pretesa di costruire al di sopra o a dispetto del creato. Nell'esternazione di questo dolore del poeta, trova poi corpo l'inarrestabile meccanizzazione di quello che in un altro tempo - ma quando? prima di noi? prima dei nostri antenati? - ci era così naturale:

Seduto su ruderi del tardo impero
dentro un sarcofago
lascio scolare il dolore.
Snodo le vene
le ossa
i bulloni
le viti
i fari
il motore
la ruota di scorta.

Così si produce dunque la lotta contro ciò che si ama, e il figlio si ostina a "raschiare" dalle pareti della mente questo viso "dolce e tranquillo", che sembra ignorare il dramma che provoca e che, nonostante ogni sforzo contrario, "si ricostruisce da solo", fortunatamente imperituro. Allo stesso modo, i tentativi di fuga dal mondo naturale si dissolvono e si neutralizzano grazie all'incanto della natura stessa:

Anche a settembre danno il frutto
e ce ne sono di quelli neri [fichi]
ma dolcissimi che strappano
la voglia di fuggire.

Fra obbedienza al mandato ancestrale e armonia emotiva con la figura paterna e con la natura, il riscatto del figlio passa anche, inevitabilmente, attraverso la scrittura.: "virgole /sì, magari ogni tanto / qualche bel punto". La punteggiatura è una scelta ponderata, poiché le parole, come le risa delle piante, sembrano sorgere spontaneamente dall'esperienza della terra. La punteggiatura ordina, sistematizza, favorisce la significazione di un linguaggio che sorge grazie alla spoliazione e all'intrepido esercizio dell'essenzialità.
Con l'ultima poesia il ciclo si chiude, e sembra che la lezione sia stata appresa: "È come se dovessi ricominciare". Ma adesso cominciare significa cominciare una nuova vita, in sintonia con ciò che si credeva perduto e che - se riusciamo a riscoprirlo - è esattamente ciò per cui vale la pena di vivere:

Farsi più piccoli
per dormire nei nidi degli uccelli
più agili per arrampicarsi sugli alberi
più leggeri per stendersi sui rami
per poi potarli e raccoglierne i frutti.
Più sottili per passare
tra le sbarre dei cancelli.

Forse adesso sarà possibile realizzare ciò che prima, nella vita frenetica e meccanizzata, sembrava un'utopia: tendere a un pensiero calmo e puro. È con questo proposito e questo augurio che si chiudono le Poesie della terra, e a tale augurio si associa il lettore, intimamente conquistato.

Prima di concludere queste riflessioni, tuttavia, risulta indispensabile un'ultima considerazione sul lavoro di traduzione qui svolto. Il dibattito sull'opportunità o meno del "passaggio" da una lingua a un'altra quando la materia in oggetto è la poesia non si è concluso. Probabilmente ha ragione Octavio Paz quando considera la traduzione come un "ponte", non solamente utile ma addirittura indispensabile, fra le culture. Probabilmente, inoltre, anche se in tutte le lingue è possibile trovare un modo per esprimere ciò che diciamo nella nostra lingua, ci sono sfumature di significato e associazioni possibili, mezzi di relazione lessicale, che non sempre è automatico riprodurre. Quanto più il poeta è legato alle particolarità fonetiche e connettive della propria lingua, tanto più sarà difficile tradurlo. Quanto più egli è interessato all'essenzialità del messaggio, tanto più sarà facile effettuare questo passaggio. Quest'ultimo è il caso di Brandolini: il suo linguaggio, come la zappa di suo padre, lavora sì in profondità, ma accarezzando. Più che la sperimentazione, la rottura o la violenza, la parola di Brandolini si muove soavemente, crea, appunto, accarezzando; e apre solchi profondi in cui il lettore viaggia riconoscendo e imparando. Così il traduttore.

(tradotto dallo spagnolo da
Giulia De Sarlo - gennaio 2005)

La memoria del árbol

Alessio Brandolini ha encontrado en la poesía de un poeta que le es sin duda afín, Franco Facchini, la reflexión que introduce e ilumina su propia poesía: los árboles son "antiguos pensamientos / plantados en la respiración / eternos". Los poemas de la tierra, en efecto, son también poemas de los árboles y en ellos la palabra encuentra un remanso simbólico y una imagen visual confortante, de individualidades reunidas en una semejanza trascendente, en la que el yo mortificado de nuestra época frenética y globalizante puede por fin apoyarse y descansar. Los árboles son la memoria ancestral - "antiguos pensamientos" - en los que el lector contemporáneo encuentra indicaciones seguras, una guía y una certeza en la inseguridad preponderante de nuestros días.
La reflexión de Brandolini parte de la tierra. "La tierra es todavía nuestra", reza el primer verso del poemario, y esa presumible complacencia no radica en la posesión de la tierra sino en la relación estrecha de recíproca pertenencia y dependencia en la que el campesino se reconoce. Brandolini no es un campesino; o dejó de serlo cuando a los 20 años abandonó su pueblo natal y se fue a estudiar a la capital y eligió para su vida un espacio urbano y una dirección intelectual, dando de alguna manera la espalda a la vida rural y a la costumbre familiar. Por eso su poesía, como tal vez su vida, cumple un ciclo que en este poemario se verifica en la línea circular que lleva del segundo poema (o primero, si consideramos que el anterior es una especie de introducción) al último. Nos dice para empezar: "Es como si hubiera llegado / demasiado tarde". Y al terminar su recorrido:

Es como si tuviera que volver a empezar
todo desde el principio, desde
los primeros penosos pasos.
Ahora lo sé y no espero nada más.

Si el poeta intelectual y urbano, en un determinado momento, ha vuelto la espalda al mundo rural, en un segundo momento ha comprendido que era necesario volver a él. Por eso, como dice Santagostini en la nota precedente, Brandolini no es, no puede ser, el epígono de ninguna tradición bucólica. Él es, en todo caso, un poeta pionero de una tendencia nueva - que la ecología y los partidos verdes del mundo aplaudirán - que reúne la necesidad racional de recuperar la armonía con la tierra, ahora urgente a causa de una civilización masacrante y suicida, y una emotividad primaria y natural, enrarecida por la fiebre de la tecnología. Si a lo largo del siglo XX las voces poéticas que evocaban y cantaban el mundo rural se fueron perdiendo paulatinamente, a medida que las vanguardias exaltaban la máquina y la velocidad y a medida que las ciudades crecían invadiendo de cemento los paisajes naturales, hoy día la fascinación por la máquina ha dejado lugar al miedo por el crecimiento indiscriminado de la tecnología y por las consecuencias nefastas que podría tener un poder incontrolado sobre la naturaleza. En el mundo americano, las voces de los aborígenes, que después de siglos de opresión, empiezan a hacerse oír, en sus propias lenguas y con su propia inalienada visión del mundo, cantan a la tierra y vuelven a proponer esa armonía ancestral con la tierra que no han podido perder. Para los poetas europeos y, en todo caso, para los poetas de formación urbana, cantar a la tierra significa "volver a la tierra". Y eso es lo que hace Alessio Brandolini: tal vez demasiado tarde, nos advierte, y sin duda para volver a empezar desde el principio. Pero, como agrega en el mismo poema, "más vale tarde que nunca / se dice así, ¿no es cierto?".
Las referencias al presente, en esta intensa y breve serie de composiciones, son pocas y siempre trágicas, tal vez porque el presente ya es inseparable de una angustia apocalíptica que había marcado el final del milenio precedente y que abre el nuevo milenio con eventos catastróficos como el ataque a las Twin Towers, cuya evocación Brandolini no puede evitar:

Es como si estuviera clavado
al mismo divisorio oriental
o al rascacielos americano
que con una explosión se desintegra.

Pesadilla apocalíptica y culpa del genocidio atómico ("ciudades enteras borradas") que se vienen a sumar a la angustia de una naturaleza corrompida, maltratada, y por causa nuestra, tal vez, enferma sin remedio. Así, los árboles, que alzando sus copas majestuosas hacia el cielo nos enseñaban el camino que une las raíces con el alma, lo inmanente con lo trascendente, ahora parecen abandonados ("fueron abandonados?", se pregunta el poeta), "ya no tienen nombre / y bajo la robusta corteza / hay sólo un agujero [...] un nido de moho, de carcoma". Es la tierra que sufre, y la causa somos nosotros: sufre porque siente "la carencia / de substancia y de amor".
La alerta viene entonces de la tierra misma, y la eficacia de su mensaje se demuestra en esa sensibilidad que el poeta campesino - o recreado campesino - recupera en contacto con las criaturas naturales: árboles, matas, pájaros, hojas que juegan con el viento, frutos que penden de los ramos, instrumentos antiguos que saben trabajar la tierra acariciándola... Observada de cerca la naturaleza revela su profunda humanidad, que no es otra cosa que la proyección de nuestra esencia natural, la explicitación de una armonía en la que hemos sido - y tal vez podamos volver a ser - criaturas de un reino no escindido, no castigado, sin culpa y sin exilio, reino cercano aún a la raíz divina de nuestro ser creado.
Esta sabiduría Brandolini la recibe directamente de los árboles: con ellos dialoga, con ellos entabla una relación de hermandad primordial y de felicidad sin resquemores: "Las higueras tienen dedos anchos", observa, y mientras sus hojas sostienen, tal vez detienen, el aire caliente de junio, "las venas estallan de júbilo", sin que se pueda saber si por esas venas corre la savia de la higuera o la sangre del poeta, o ambas. Al mismo tiempo, las hojas del ciruelo "juegan con el aire" y hablan, durante horas, sin tregua, el poeta escucha, y una azada que trabaja hasta el final del día, acaricia la tierra, sabe cómo hacerlo, con pericia y amor.
La voz que nos susurra estos poemas de la tierra - porque se trata sin duda de poemas dichos en voz baja, reflexivos, íntimos - proviene de un sujeto que antes que nada escucha. Los árboles le enseñan y él dócilmente aprende, comparte sus esperas y sus sueños, asimila su memoria milenaria, y junto a ellos descubre la hermandad fundamental de la naturaleza:

Me recuesto en la tierra
compacta y seca
por mucho tiempo escucho
a los dos cerezos
durante semanas
juntos
esperamos la lluvia.

Los veintiseis poemas de la serie constituyen un itinerario de viaje hacia adentro y hacia atrás: atrás quiere decir antes de la confluencia entre modernidad y máquina; y adentro significa hacia la memoria ancestral en donde raíz natural y estirpe contadina se reúnen para ofrecer una imagen inédita del propio rostro. Ese itinerario implica, por lo tanto, un viaje de descubrimiento y de conocimiento, un viaje de iniciación a una nueva identidad y, quizás, a una nueva vida. No puede faltar entonces la figura ejemplar y tutelar. Y esa figura es la figura del padre. El mismo padre a quien está dedicado el poemario: inspirador y destinatario privilegiado de estas ecuaciones en las que una emotividad sumergida y recuperada ha encontrado finalmente la vía de salida en la palabra.
El padre aparece desde el principio como ejemplo y como guía, con su rostro "dulce y tranquilo", al mismo tiempo familiar y arcano, como la naturaleza de la que él parece ser representante y parte, súbdito y embajador. Entre sus manos vibra luminoso un sol y su pensamiento, simple y profundo, como los árboles, sabe conectar la tierra con el cielo:

Entonces no hablas más
bajas la mirada azul
abres con los ojos
un hoyo que se va
directamente al cielo.

La palabra, en su expresión, se condensa en gestos y sonrisas que abrazan períodos de tiempo largos como la vida y por lo mismo en un momento pueden revelar la vida misma:

Entonces me miraste
con una sonrisa nueva
la que sueño
desde que estoy en el mundo.

Este padre encarna la figura tutelar en absoluto, y su complejidad se confirma cuando comprendemos que hay una entidad femenina que también participa en él, como en el espíritu de los árboles a los que al mismo tiempo sirve y domina. El espíritu de la madre tierra se manifiesta en la capacidad del padre para desentrañar los frutos de la tierra, para cuidar y proteger su vergel, para reproducir y alimentar. De hecho, cuando el hijo reconoce en él habilidades que van más allá del trabajo viril del campesino ("Las rosas / tú las pusiste"), que tienen esa gratuidad y esa belleza más graciosamente femeninas que racionalmente útiles, las atribuye a un patrimonio de indudable raíz mujeril:

Las rosas
tú las pusiste
con gestos tranquilos
que desde hace siglos
se transmiten
de madre a hija.

No obstante, y a pesar de la intensa dulzura de esta relación, un misterio irresuelto y un aire de tormenta permanece por encima de los versos más hermosos de este poemario inquietante. La razón de ello, tal vez, resida en el drama mismo del hijo que lucha dentro de sí contra una condición de desarraigo de lo natural - inevitable en el mundo mecanizado en que hemos nacido - y contra la misma atracción por la naturaleza que, vista desde otro ángulo, podría significar desvío de los caminos preconcebidos por nuestra sociedad (precisamente) desnaturalizada. La evidencia de vivir sobre las ruinas de lo que fue un imperio - el Imperio Romano - agudiza el dolor del tiempo que transcurre alejándonos de nosotros mismos y vanificando la pretensión de construir por encima o a despecho de lo creado. En la externación del ese dolor del poeta se manifiesta además la inarrestable mecanización de lo que en otro tiempo - pero cuándo, ¿antes de nosotros, antes de nuestros ancestros? - fuera natural en nosotros:

Sentado sobre ruinas del imperio
adentro de un sarcófago
dejo escurrir el dolor.
Desato las venas
los huesos
los pernos
los tornillos
los faros
el motor
la rueda de reserva.

Así se produce entonces esa lucha contra lo que se ama, y el hijo se empecina en "rascar" de las paredes de la mente ese rostro "dulce y tranquilo", que parece ignorar el drama que provoca y que, no obstante los esfuerzos contrarios, "se reconstruye solo", afortunadamente imperecedero. Igualmente las tentativas de fuga del mundo natural se disuelven y se neutralizan gracias al encanto mismo de la naturaleza:

Incluso en septiembre fructifican
y hay unos [higos] que son negros
pero bien dulces que te quitan
las ganas de escapar.

Entre obediencia al mandato ancestral y armonía emotiva con la figura paterna y con la naturaleza, el rescate del hijo pasa asimismo, inevitablemente, a través de la escritura: "comas / sí, a lo mejor cada tanto / un lindo punto". La puntuación es una elección ponderada porque las palabras, como la risa de las plantas, parecen surgir espontáneamente de la experiencia de la tierra. La puntuación ordena, sistema, favorece la significación de un lenguaje que surge gracias al despojamiento y al intrépido ejercicio de la esencialidad.
Con el último poema se cierra el ciclo y parece que la lección hubiera sido aprendida: "Es como si tuviera que volver a empezar". Pero ahora empezar significa empezar una vida nueva, en sintonía con lo que creíamos perdido y que - según acabamos de descubrir - es justamente aquello por lo que de verdad vale la pena vivir:

Volverse más pequeños
para dormir en los nidos de los pájaros
más ágiles para treparse a los árboles
más livianos para tenderse en las ramas
para después podarlas y recoger los frutos.
Más delgados para pasar
entre las rejas de los portones.

Tal vez ahora será posible aspirar a lo que antes, en la vida frenética y mecanizada, parecía utópico: aspirar a un pensamiento calmo y puro. Es con este propósito y con este augurio que se cierran los Poemas de la tierra y a ese augurio adhiere el lector, íntimamente conquistado.

Antes de cerrar estas reflexiones, sin embargo, una última consideración resulta indispensable sobre el trabajo de traducción aquí efectuado. El debate sobre la pertinencia o menos del "pasaje" de una lengua a otra cuando la materia en objeto es la poesía, no ha terminado. Es probable que tenga razón Octavio Paz cuando considera la traducción literaria como un "puente", no sólo útil sino indispensable, entre las culturas. Es probable también que, aunque en todas las lenguas sea posible encontrar medios para expresar lo que decimos en la nuestra, haya matices de significado y asociaciones posibles, medios de relación lexical, que no siempre resulta automático reproducir. Cuanto más aferrado esté el poeta a las particularidades fonéticas y conectivas de su propia lengua, más difícil será traducirlo. Cuanto más interesado en la esencialidad del mensaje, más fácil será efectuar ese pasaje. Este último es el caso de Brandolini: su lenguaje, como la azada del padre, trabaja en profundidad pero acariciando. Más que la experimentación, la ruptura o la violencia, la palabra de Brandolini se mueve suavemente, crea acariciando; y abre surcos profundos en los que el lector viaja reconociendo y aprendiendo. Así el traductor.


Una scelta di testi dalla raccolta, in italiano e nella traduzione di Martha L. Canfield

La terra è ancora nostra
l'abbracciano gli ulivi
dalle foglie argentate
che dipingono l'aria
incidono liste di nomi
le storie che ci appartengono.

Non ci conoscono
ma ci sentono
nel legno
nel respiro
nello sguardo
nel passo lento
che resiste ai giorni
risale fin lassù
ai muri sbiechi delle case
dell'antico paese medievale.

*****


(Radio Tre, Fahrenheit, 18/8/2006)

È come se fossi arrivato
troppo tardi, mi dico
mentre falcio l'erba alta
o annaffio gli ulivi
che hanno appena un anno
piantati con mio padre
dopo aver strappato alla terra
quelli morti, o ammalati.

E' come se fossi inchiodato
allo stesso divisorio orientale
o al grattacielo americano
che si disintegra con un boato.

Solido e impenetrabile
calcificato dalla storia
però ugualmente
cito a memoria
i passi lunghi
i più importanti
di questa insolita
ma ben salda deriva.

La promessa è lo stupore
di un solco
preciso e profondo
tracciato non nella polvere
ma nella realtà, nel presente
di questo paterno terreno.
Come se a sorpresa
fosse arrivata
l'ora della semina.

*****


(Radio Tre, Fahrenheit, 15/2/2006)

Certo non dissento, e dopo che farei?
Però nel frattempo rinnovo casa
mi trasferisco
in un angolo di strada.
Sì, trasloco fuori città
magari in un bosco
mi stabilisco in una quercia cava.

Un mondo rinforzato da vitamine e sali minerali
certo più sicuro per via degli antifurti
delle porte blindate, dei cancelli sbarrati
con paletti e lucchetto
di libertà sigillate in cassaforte
in attesa di tempi migliori
di un nuovo perfetto equilibrio.

Non sentirò il bisogno
d'avere una parte di tutto.
Avrò poco e quel poco mi basterà,
non sentirò la fretta di consumarlo.
Farò a meno d'appigli e stampelle
lascerò la porta spalancata
sarò felice di ricevere ospiti e amici.

Tanto la pioggia cancellerà le impronte
diverrà impossibile tornare indietro.

*****

Gli alberi
sono stati abbandonati?
non hanno più nome
sotto la spessa corteccia
c'è solo un buco
un passaggio sbarrato
privo di linfa
un nido di muffa, di tarli.
Per questo fra tre giorni
verranno ad abbatterli.

A terra i frutti
svuotati dai vermi
presi d'assalto
da formiche affamate
dai ragni rossi
con la bocca a tenaglia.

Intorno all'albero
il tappeto di foglie
macerate nell'acqua.

*****

Le rose
non hanno odore
i petali piegati
si lasciano
lacerare dal vento
essiccare dal sole.

Sul filo del recinto
ortiche divorano
le more ancora acerbe
con le spine legate
da fili d'erba secca
a formare fragili nidi.

Le rose
le hai messe tu
con gesti calmi
che da secoli
si tramandano
di madre in figlia.

Le rose
sono la scorta
di calore e di gioia
il sogno d'acqua
che si riversa
sul bosco in fiamme.

*****

Limitarsi a poco, sussurri
e io subito penso: virgole
sì, magari ogni tanto
qualche bel punto.

Scavare
un fossato di scolo
un pozzo
per l'acqua piovana
mettere il palo dritto
per sostenere
il giovane albicocco
e il tempo che passa
enumerarlo
scandirlo
senza rifargli il trucco.

Nelle tue mani
c'è un sole
non troppo luminoso
ma chiaro e necessario
che calmo s'addormenta
nella sua luce opaca.

Non aggiungi altro
già metti in moto
corri a dare alle viti
l'acqua ramata.

*****

Quando sono tornato
qui era un deserto
con in mezzo una giungla.
Altissima l'erba
tanto che Flavia e Simone
vi si perdevano dentro.

Con la falce
mi tagliavo le unghie
scorticavo
l'osso del collo
ce la mettevo tutta
per riprendere fiato
dopo gl'interventi, le cure
piantavo l'edera e il lauroceraso
il corniolo e il corbezzolo
gli abeti che ora
sono le audaci e forti sentinelle
che proteggono la terra e ogni volta
ci salutano, ci abbracciano
quando di corsa
spalanchiamo il cancello.

*****

Chiarisco con un esempio
vedi, ti dico
queste mani sono piene di graffi
hanno strappato le spine
l'erba cattiva del campo
sotto il monte scosceso
lo hanno fatto
anche se quando si torna
è tutto come prima
l'erbacce sono già alte
talvolta persino più folte.

Allora non parli più
chini lo sguardo azzurro
scavi con gli occhi
un pozzo che se ne va
dritto verso il cielo.

Con i piedi in aria
il mento all'insù
guardo e ammiro
la luminosa semplicità
del tuo pensiero.

*****

Ecco, ti raggiungo a fine agosto
e già nel tuo sguardo leggo
l'inizio dell'autunno.

Gli alberi senza foglie
l'erba secca, ingiallita
il sentiero ricoperto
dalle spine, dall'ortica.
C'è tristezza nel grido
tardivo degli uccelli.
Appaiono stanchi e svogliati
come se volassero nell'acqua
per questo muovo i passi
con prudenza, a rilento.

Mi affaccio in un luogo segreto
ma allargato allo sguardo
alle mani degli altri
alle braccia di tutti
al volto esteso
millenario del mondo.

*****


(Radio Tre, Fahrenheit, 29/8/2006)

È come se dovessi ricominciare
tutto dall'inizio, dai primi
stentati passi.
Ora lo so e non aspetto altro.
Sì, avrei dovuto capirlo
dieci anni fa
ma forse non potevo.
Però: meglio tardi che mai,
non è così che si dice?

Chiederò il vostro aiuto
assidua collaborazione
per non isolarmi di nuovo
dividermi in più parti
nel corpo e nello spirito.
Anche così va bene
si può vivere in silenzio
cambiare in modo brusco
metodo e direzione
tendere a un pensiero calmo e puro.

Farsi più piccoli
per dormire nei nidi degli uccelli
più agili per arrampicarsi sugli alberi
più leggeri per stendersi sui rami
per poi potarli e raccoglierne i frutti.
Più sottili per passare
tra le sbarre dei cancelli.

La tierra es todavía nuestra
la abrazan los olivos
de hojas plateadas
que pintan el aire
grabando listas de nombres
historias que nos pertenecen.

No nos conocen
pero nos sienten
en la madera
en la respiración
en la mirada
en el paso lento
que resiste a los días
va subiendo hasta arriba
a los muros torcidos de las casas
del antiguo poblado medieval.

*****


 

Es como si hubiera llegado
demasiado tarde, me digo
mientras corto la hierba crecida
o riego los olivos
que tienen sólo un año
plantados por mi padre
después que arrancó de la tierra
los que estaban muertos, o enfermos.

Es como si estuviera clavado
al mismo divisorio oriental
o al rascacielos americano
que con una explosión se desintegra.

Sólido e impenetrable
calcificado por la historia
pero lo mismo
cito de memoria
los pasajes largos
los más importantes
de esta insólita
pero clara deriva.

La promesa es el estupor
de un surco
preciso y profundo
trazado no en el polvo
sino en la realidad, en el presente
de este terreno paterno.
Como si de sorpresa
hubiera llegado
la hora de sembrar.

*****


 

Claro que no discuto, ¿y luego qué haría?
Pero mientras tanto renuevo la casa
me traslado
a una esquina de la calle.
Sí, me mudo fuera de la ciudad
a lo mejor a un bosque
me establezco en una encina hueca.

Un mundo reforzado con vitaminas y sales minerales
por cierto más seguro a causa de las alarmas
las puertas blindadas, los portones herméticos
con seguros y candados
por la libertad encerrada en caja fuerte
en espera de tiempos mejores
de un nuevo equilibrio perfecto.

No voy a sentir la necesidad
de tener una parte de todo.
Tendré poco y ese poco me va a alcanzar,
no voy a apurarme a consumirlo.
No voy a usar muletas ni apoyos
dejaré la puerta de par en par abierta
y voy a ser feliz recibiendo huéspedes y amigos.

Total la lluvia borrará las huellas
y será imposible volver a atrás.

*****

Los árboles
fueron abandonados?
ya no tienen nombre
bajo la robusta corteza
hay sólo un agujero
un pasaje impedido
carente de savia
un nido de moho, de carcoma.
Por eso dentro de tres días
van a venir a derribarlos.

En el suelo los frutos
vaciados por los gusanos
se vuelven presa
de hormigas hambrientas
de arañas rojas
con boca de tenazas.

Alrededor del árbol
la alfombra de hojas
maceradas en el agua.

*****

Las rosas
no tienen olor
los pétalos plegados
se dejan
lacerar por el viento
secar por el sol.

Sobre el alambrado del recinto
las ortigas se devoran
las moras todavía verdes
con las espinas envueltas
por hojas de hierba seca
que forman como frágiles nidos.

Las rosas
las pusiste tú
con gestos tranquilos
que desde hace siglos
se transmiten
de madre a hija.

Las rosas
son la reserva
de calor y de dicha
el sueño de agua
que se vuelca
sobre el bosque en llamas.

*****

Limitarse a poco, susurros
y yo enseguida pienso: comas
sí, a lo mejor cada tanto
un lindo punto.

Excavar
una zanja de desagüe
un pozo
para el agua de la lluvia
poner un palo derecho
para sostener
el albaricoquero joven
y el tiempo que pasa
numerarlo
medirlo
sin mejorarlo en nada.

En tus manos
hay un sol
no muy luminoso
pero sí claro y necesario
que tranquilo se duerme
entre su luz opaca.

No agregas nada
ya pones en marcha
corres a dar al viñedo
el agua sulfatada.

*****

Cuando regresé
aquí había un desierto
con una jungla en medio.
La hierba altísima
tanto que Flavia y Simone
se desaparecían ahí adentro.

Con la hoz
me cortaba las uñas
desollaba
el huesito del pescuezo
me esforzaba muchísimo
por retomar aliento
después de los trabajos, los arreglos
plantaba la hiedra y el lauroceraso
el cornejo y el madroño
los abetos que ahora
son audaces y fuertes centinelas
que protegen la tierra y siempre
nos saludan, nos abrazan
cuando de carrera
abrimos el portón de par en par.

*****

Lo aclaro con un ejemplo
mira, te digo
estas manos están llenas de rasguños
han arrancado las espinas
la hierba mala del campo
por el monte escarpado
lo han hecho
aunque al volver
todo se encuentre como antes
la maleza ya está alta
e incluso más tupida.

Entonces no hablas más
bajas la mirada azul
abres con los ojos
un hoyo que se va
directamente al cielo.

Con los pies en el aire
y el mentón hacia arriba
miro y admiro
la luminosa simplicidad
de tu pensamiento.

*****

Cierto, te alcanzo a fines de agosto
y ya en tu mirada leo
el comienzo del otoño.

Los árboles sin hojas
la hierba seca, ya amarilla
el sendero recubierto
de espinas, y de ortigas.
Hay tristeza en el grito
tardío de los pájaros.
Parecen cansados y sin ganas
como si volaran en el agua
por eso yo me muevo
con prudencia, muy despacio.

Mi asomo a un sitio secreto
pero ancho para la mirada
para las manos de los demás
para los brazos de todos
para el rostro extenso
milenario del mundo.

*****


 

Es como si tuviera que volver a empezar
todo desde el principio, desde
los penosos primeros pasos.
Ahora lo sé y no espero nada más.
Sí, tendría que haberlo entendido
diez años atrás
pero tal vez no podía.
No obstante: más vale tarde que nunca,
se dice así, no es cierto?

Les voy a pedir que me ayuden
una asidua colaboración
para no aislarme de nuevo
no dividirme en tantas partes
en el espíritu y en el cuerpo.
Así también está bien
se puede vivir en silencio
cambiar de manera brusca
el método y la dirección
aspirar a un pensamiento calmo y puro.

Volverse más pequeños
para dormir en los nidos de los pájaros
más ágiles para treparse a los árboles
más livianos para tenderse en las ramas
para después podarlas y recoger los frutos.
Más delgados para pasar
entre las rejas de los portones.


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