chi sono | Alessio Brandolini |
che cosa ho scritto |
da ClanDestino, trimestrale di cultura e poesia, 2005/3, dicembre 2005, di Caterina Camporesi
dal settimanale Roma Sette - Avvenire, 23 ottobre 2005, di Marco Testi (anche nel sito web della rivista)
dal sito dell'editore LietoColle, 13 aprile 2005, intervista di Rafael Courtoisie, (l'originale è qui)
da L'Osservatore Romano, 23 febbraio 2005, di Marco Testi
da Almanacco del Ramo d'Oro, n. 5/6, febbraio 2005, di Mary Barbara Tolusso
dal sito Fucine mute, 69, novembre 2004, di Christian Sinicco, (l'originale è qui)
da El Nuevo Herald, Miami (inserto culturale "Artes & Letras"), 31 ottobre 2004, di Juana Rosa Pita (anche nel sito web del quotidiano)
da DAEMON, n. 18, ottobre 2004
da Specchio (La Stampa), 11 settembre 2004, di Maurizio Cucchi
da 30 GIORNI, n. 9, settembre 2004, di Cristiana Lardo
da Controluce, settembre 2004, di Federico Gentili
dal sito Vico Acitillo 124 - Poetry Wave, settembre 2004, di Raffaele Piazza, (l'originale è qui)
da Poeti e Poesia, agosto 2004, di Biancamaria Frabotta
dal sito unn.it, luglio 2004, di Laura Ricci, (l'originale è qui)
poi anche sul sito Fabruaria.it, (l'originale è qui)
da IL GAZZETTINO, 19 aprile 2004, di Mary Barbara Tolusso
da L'AZIONE, 3 aprile 2004, di Alessandro Moscè
dal sito Transference, aprile 2004, di Erminia Passannanti,
poi anche sul sito di LietoColle)
da ClanDestino, trimestrale di cultura e poesia, 2005/3, dicembre 2005, di Caterina Camporesi (inizio)
IL COAGULANTE DELLA TERRA
L'elemento coagulante della raccolta del poeta romano Alessio Brandolini è quello della terra che, esigendo competenza, coltiva il dialogo tra figlio e padre e dispone atti tramandati di generazione in generazione. È una poesia che si contraddistingue per il contenuto che attinge al lavoro concreto, intriso di fatica e sudore, per la coerenza interna e per la levità del verso asciutto, che mantiene compatta l'armonia del testo. L'analogia penna/vanga, così significativa per Seamus Heaney, sembra non porsi per Brandolini, come pure il paragone tra leggerezza della penna e pesantezza della vanga: la prima non è metafora della seconda e viceversa. L'operosità della natura si compie nell'eterno ritorno, quando la bellezza della creazione si ripete e impedisce la fuga.
Alessio Brandolini ha al suo attivo due precedenti raccolte: L'alba a piazza Navona, silloge di 15 poesie apparsa all'interno del volume "7 poeti del Premio Montale" (Scheiwiller, Milano, 1992, Premio Montale - sezioni inediti) e Divisori orientali, (Manni, 2002 - Premio Alfonso Gatto 2003 - Opera prima). È presente in antologie con testi di poesia e prosa, fa parte della giuria del Premio Pierpaolo Pasolini, organizza reading e incontri letterari, specie con il gruppo "I Libri in testa".
Occorre inoltre ricordare che Poesie della terra è stato tradotto in spagnolo da Martha Canfield.
I fichi hanno le dita larghe
le loro foglie sorreggono l'aria
calda di giugno
e le vene scoppiano di gioia.Anche a settembre danno il frutto
e ce ne sono di quelli neri
ma dolcissimi che strappano
la voglia di fuggire.Più in là s'agitano le foglie
verde-smeraldo del grande susino
giocano con l'aria e per ore
parlano senza un attimo di tregua.Con la zappa fino al tramonto
ad accarezzare la terra
intorno al tronco,
a divorarla con gli occhi.
dal settimanale Roma Sette - Avvenire, 23 ottobre 2005, di Marco Testi (inizio)
Brandolini, una lirica filiale
C'è la campagna al centro di questa silloge di poesie: versi asciutti che sfuggono a molte delle sirene liriche contemporanee
In genere la presenza familiare per eccellenza nella poesia contemporanea è quella della madre patiens o del padre antagonista. Raramente assistiamo, come accade in questo "Poesie della terra" di Alessio Brandolini, ad una lirica in cui non solo il modello positivo è quello paterno ma dove la terra viene messa in relazione con il genitore e non con la madre, come accade sovente in territorio poetico. Questa breve silloge di poesie sfugge a molte delle sirene contemporanee: il verso è breve e asciutto; il giardino felice dell'infanzia è quello in cui la comunione è con il padre e non con l'archetipo materno; la campagna torna al centro del discorso poetico in un momento in cui altri sono i luoghi deputati alla lirica contemporanea: i bar, le stazioni della metropolitana, la macchina, la strada affollata o il vicolo deserto. Poesia di respiro breve, quindi, che si sviluppa e prende corpo attraverso accumulazioni lessicali ("Nel legno/ nel respiro/ nello sguardo/ nel passo lento"), e che ha nello sguardo un elemento fondante. Gli elementi di questo cosmo sono infatti, anche i più irrilevanti e banali, colti e collocati quasi mimeticamente nello scenario di una natura ancora madre feconda: "Oltre la rete metallica/ con i fili spinati/ stanno uno sull'altro/ i rami tagliati/ che seguitano a fiorire". Si tratta di uno sguardo che attraverso il contatto con la terra riscopre il cuore, ben oltre la razionalità e la fretta del moderno viaggio metropolitano. In questo caso, il cuore è rappresentato dal riconoscersi figlio e dall'accettare la diversità, quella propria e quella del padre: in questo sì al molteplice dell'esistenza si raggiunge l'unità, perché il silenzio paterno ha permesso la parola filiale. È una poesia in cui la nostalgia per la comunione padre-natura è attenuata da questo senso di accettazione del vivere le proprie scelte nel mondo. La separazione è una necessità che però non esclude la tensione verso quell'angolo periferico del mondo dove "si raggiunge la calma/ con la camicia pregna di sudore/ presto ci si abitua al soggiorno/ fuori del chiasso". Sono lontani gli elementi elegiaci e scolastici, grazie a questa scabra, asciutta pronunziazione dell'amore verso un genitore, che qui è anche amore verso la vita stessa.
dal sito dell'editore LietoColle, 13 aprile 2005, intervista di Rafael Courtoisie (*) (inizio)
INTERVISTA AD ALESSIO BRANDOLINI
La sua poesia propone un rapporto con la natura. Un rapporto diretto ma non semplice. È d'accordo?
La relazione con la natura è diretta, certo, ma non può essere semplice. Nelle Poesie della terra (2004, LietoColle, anche in edizione spagnola Poemas de la tierra, edito sempre da LietoColle) tratto temi legati agli alberi, al paesaggio, alle stagioni, al lavoro manuale ma anche alle difficoltà ad avere un rapporto immediato con la natura. Non solo perché vivo a Roma da quando avevo vent'anni, ma soprattutto per il fatto che il senso della natura è stato stravolto negli ultimi decenni e la nostra società va così di corsa che non ha nemmeno il tempo di accorgersene. La terra, e la nostra Terra, soffrono, per abbandono e mancanza d'amore.
Martha Canfield parla di una "apparente dolcezza elegiaca". In ogni caso si tratta di un'elegia che nello stesso tempo festeggia, celebra.
Festeggia un ritorno, certo, l'aver ritrovato qualcosa che era in me, d'importante e autentico, per quanto pieno di acciacchi e cicatrici. Le poesie della terra sono venute dopo un periodo durissimo della mia vita. Ho sentito il bisogno di recuperare la memoria di ciò che sono, il legame con la mia famiglia, con mio padre, che è un uomo burbero e di poche parole, con il terreno dove vendemmiavo da bambino, con il paese medioevale arrampicato sul cucuzzolo d'una montagna dove ho vissuto fino a vent'anni con la mia numerosa famiglia. Ma si sa che il ritorno non è mai semplice: è passato molto tempo, le cose sono cambiate, persino il paesaggio non è più lo stesso, e tanti volti amati non ci sono più. La dolcezza elegiaca nasce nello scoprire l'armonia della vita in una foglia, nel trovare gioia nel piantare un albero, nel potarlo, nel riportare a casa un cesto di albicocche, o di dolcissimi fichi. Nell'aprire un dialogo nuovo con mio padre, con la speranza di riuscire a trasmetterlo ai miei figli.
Nomini alcuni dei suoi poeti (italiani o stranieri) di riferimento (e cioè che siano per Lei punti di riferimento).
Dovrei fare un lungo elenco, a partire da Omero, Dante e Petrarca, altissimi e indispensabili, per poi passare per Giacomo Leopardi e Emily Dickinson e arrivare ai giorni nostri, ma fermiamoci subito al 900. In Italia la linea che sento più vicina è quella che si richiama a Giovanni Pascoli e passa per Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, il Cesare Pavese della raccolta poetica "Lavorare stanca" (ma anche del romanzo "La luna e i falò"), Sandro Penna, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Raboni. Per gli stranieri dell'ultimo secolo citerei almeno Federico Garcia Lorca, César Vallejo, Vladimir Majakovskij, T. S. Eliot, Konstantinos Kavafis, Antoio Machado, Wislawa Szymborska, Jorge L. Borges, Jorge Eduardo Eielson, Hans Magnus Enzensberger, Mario Benedetti ... Mi piace molto anche la poesia di Jorge Arbeleche, che ho conosciuto a Roma, ogni tanto rileggo i suoi testi, come, ad esempio, "El campesino de Tashkent" o "La casa de la piedra negra", "Rojo"... Aggiungo che per me non esiste uno steccato con la prosa e la mia poesia si nutre di tanti libri di narrativa, o addirittura di testi per il teatro (per esempio quelli dell'amato Carlo Goldoni).
Negli ultimi anni la sua poesia ha avuto una singolare diffusione in spagnolo. In particolare lei è stato invitato al Festival di Medellín nel giugno 2004. Come è stata quell'esperienza?
Semplicemente fantastica. Sono partito con tante paure addosso e poi tutto è stato bello e naturale, e al festival mi sono sentito a mio agio. Devo aggiungere che tutto è stato reso più facile dai Poemas de la tierra (2004, LietoColle) che mi portavo dietro, tradotti alla perfezione da Martha Canfield, anche lei presente al festival e che ha letto e commentato i miei testi in spagnolo. Ho fatto tante letture sia Medellín che a Bogotá, davanti a un pubblico non solo sempre numeroso ma anche attento, partecipe e le persone che ascoltavano poi ti venivano vicino, ti parlavano, ti abbracciavano e questo calore umano per me è importante e rimarrà dentro di me per sempre. È stato anche un modo per conoscere tanta poesia e tanti poeti di ogni continente. Ho avuto una sintonia con i poeti colombiani, ovviamente i più numerosi e a proprio agio, come Armando Romero, Mario Rivero, Juan Felipe Robledo, Manuel Roca. Insieme abbiamo persino progettato un'antologia di poesia italiana e colombiana. Sono stato anche colpito dalla poesia sintetica e sarcastica del messicano José Emilio Pacheco e ho conosciuto l'incisivo e originale poeta uruguayano Eduardo Espina. Con molti poeti conosciuti al festival sono rimasto in contatto telematico.
Dall'esperienza colombiana del giugno scorso è nato di getto un nuovo libro di poesia che s'intitola Mappe colombiane.
Brandolini sembra possedere un orecchio speciale per quello che lui chiama "musica del giardino", la musica della terra..., è così?
Mi sono ritrovato in un terreno che era di mio padre e ancora prima di mio nonno e via all'indietro, fino a risalire al Medio Evo. Ho iniziato a lavorare duramente: falciavo l'erba, potavo, tagliavo, piantavo alberi. E il lavoro manuale mi ha rimesso in sintonia con me stesso, ha rallentato il ritmo della mia vita, del mio modo di sentire le cose. Da qui, forse, la capacità d'ascoltare la natura, la musica del giardino, talvolta fatta di silenzi sottili, o del rumore d'una foglia che plana sulla terra appena arata. Non è stato facile e tuttora proseguo nell'impresa d'imparare ad ascoltare meglio e più profondamente, di riuscire a staccarsi dal superfluo, dal rumore così da tendere "a un pensiero calmo e puro". Alcun temi presenti nelle Poesie della terra li riprendo e li sviluppo nelle Mappe colombiane, libro che si basa sull'intreccio delle mie esperienze al festival di Medellín e su quelle legate alla mia vita, al mio sentire umano e poetico.
Come si situa lei nell'attuale poesia italiana? A quale generazione, gruppo o linea appartiene?
Mi sento un "poeta contadino" che punta a una semplicità articolata, con tanti rami e foglie... i piedi ben piantati nella terra, che però vive in una città densa di storia (e di traffico e smog) come Roma. Per fortuna il mio terreno è a soli 30 chilometri e appena posso lo raggiungo. Per anni ho coltivato la mia poesia in solitudine, anche se le prime pubblicazione su rivista risalgono al 1989, e non sono mancati premi importanti a partire dal 1991, ma sono rimasto sostanzialmente un isolato per molto tempo, un po' per scelta, un po' per carattere. Vero è che non mi sentivo in sintonia con tanta poesia italiana, in gran parte in quell'epoca nel mezzo d'una deriva orfica o ancora troppo legata alla neoavanguardia, dove nella scrittura in versi la letteratura conta più della poesia. Negli ultimi anni è avvenuto un cambio, un ritorno a testi più diretti, di più facile comprensione, seguendo la lezione di Umberto Saba che affermava che "la letteratura sta alla poesia come la menzogna sta alla verità". Adesso critica e pubblico sembrano più attenti nei confronti di questa poesia. Ecco, io mi sento vicino a questa linea che tende alla chiarezza, che talvolta s'avvicina a cadenze prosastiche, ma internamente pura, intensamente lirica. Non è un caso, quindi, che in questo clima poetico nuovo, e a me più vicino, ho pubblicato nel 2002 Divisori orientali (con molte poesie dure legate alla vita in città), che è una specie di autoantologia di un lungo percorso poetico, nel 2004 Poesie della terra. Poi è giunto l'invito a far parte della giuria d'un premio di poesia importante come il Pier Paolo Pasolini e a settembre di quest'anno uscirà la nuova raccolta Il male inconsapevole per l'editore triestino Il ramo d'oro, che contiene testi tradotti in spagnolo (e letti in Colombia) e in francese e pubblicati su una rivista belga.
marzo 2005
(*) Rafael Courtoisie è nato a Montevideo, dove vive, nel 1958. Professore universitario, scrittore in versi e in prosa ha pubblicato numerose raccolte di racconti e di poesie, e alcuni romanzi, di cui due usciti in Italia: Vite di cani e Sfregi (Avagliano Editore, 2004). Un nuovo romanzo è in uscita presso l'editore di Firenze "Le Lettere".
da L'Osservatore Romano, 23 febbraio 2005, di Marco Testi (inizio)
LA "MILLENARIA" FIGURA PATERNA NELLO SGUARDO DI UN FIGLIO
Questo Poesie della terra, di Alessio Brandolini vincitore del Premio Montale per inediti nel 1991, è una brevissima raccolta di liriche tutte dedicate alla figura paterna e al suo mondo: la campagna. Una volta tanto l'elemento maschile predomina in uno scenario da millenni assimilato alla dimensione materna della Bona Dea e della Mater Matuta. Quello che sorprende in queste liriche, in cui assistiamo al ritorno della stanza dopo anni di assoluta slegatura metrica, è la loro asciuttezza. Non vi sono dipanati miti antagonisti, non sembra essere presente la dualità psicanalitica padre-figlio, non vi è la facile contrapposizione campagna-città. La misura è l'elemento portante di questa raccolta, ed è, come in tutti i casi migliori, una misura insieme formale e interiore. Non vi sono sbavature, il sentimento non è per fortuna manifestato in monumenti egotici o al contrario in depressioni psichiche che tentano inutilmente di diventare corpo poetico, ma in ogni lirica regna sovrano lo sguardo del figlio. La voce lirica vede il padre alzarsi, bere il caffè, compiere gli atti millenari dell'uomo immerso nel corso della natura. E vede anche se stesso aiutarlo e insieme guardare - ancora una volta lo sguardo - da cittadino queste scene antiche e porsi domande. Domande letterarie non sul senso della vita, non sulla irriducibile distanza tra ideologia agraria e quella metropolitana, ma sulla propria scelta privata. La tentazione di "cancellare le impronte" - come scrive il poeta - e di fare il vuoto dietro di sé non nasconde nessun dualismo, ma solo la riflessione sul tesoro silenzioso di vita che si cela dietro il volto arcaico del pater. È una poesia che dal nulla, dal poco riesce a cogliere aspetti profondi dell'esistenza e sprofondare nelle impervie latebre dei simboli elementari come la terra, l'acqua, il lavoro, il silenzio. Proprio il silenzio mi sembra la cifra più evidente e insieme profonda di questa lirica che non grida né si dispera, ma assiste senza compiacimenti all'intrecciarsi di due esistenze diverse. Un atteggiamento poetico maturo - i riconoscimenti ufficiali dei Premi a volte colgono nel segno - che è molto lontano dai tic protagonistici e auto-referenziali di tanti versificatori d'oggi.
da Almanacco del Ramo d'Oro, n. 5/6, febbraio 2005, di Mary Barbara Tolusso (inizio)
Alessio Brandolini, Poesie della terra, LietoColle, Faloppio 2004, pp. 50, euro 10
Dice bene Mario Santagostini nell'introduzione a queste Poesie della terra di Alessio Brandolini: una sorta di itinerario che si inoltra nell'inattuale, tentando di raggiungere quel sé più autentico, elementare, liberandosi dalle scorie della modernità. Dopo Divisori orientali (Manni), dove la contemporaneità rimane stretta nella morsa dei suoi effetti (in piccoli o grandi quadri), Brandolini sposta l'obiettivo a una "apparente" scelta, circoscrive un percorso: una terra data in sequenze descrittive e coerenza di sguardi, dal tono "elegiaco", forse, ma dove ogni passaggio fisico e temporale ristabilisce quel "contatto" che, in qualche misura, si vorrebbe perdere, inquinato com'è dai "frutti" della civiltà.
Se un tempo erano i "divisori" a indicare una precisa biforcazione, ora è la terra che distingue lo sguardo e detta, nei suoi cicli naturali, la semplicità del gesto perduto. Lo sanno i padri, quei padri per cui non è difficile ottenere "germogli più fitti, più tenaci", mentre i figli si prestano all'artificio di un rinforzo "da vitamine e sali minerali". Ma certo non basta. Non basta allungare la vista su un paradiso perduto e ritrovato. Certo non è difficile vagheggiare un ritorno, magari trasferirsi in un bosco o in una quercia cava, lavorarla, quella terra, traducendo la fatica (fatta di una genuinità smarrita) in benessere essenziale, ma, ci si chiede anche: e "dopo che farei?". E il testo si fa più intenso là dove la frontalità è secca, dolente, spezzata com'è tra "libertà sigillate in cassaforte" e la possibilità di un mondo altro, vero, eppure lontano, fatto di vite e morti che rispondono unicamente a un ciclo naturale, senza ulteriori contaminazioni.
La struttura poematica ci racconta una storia, mette a fuoco ogni singolo gesto, foglia, radice, calcola il peso della scelta, confronta gli esiti (di natura e cultura), traccia, per quel che possibile, un'etica. Eppure riesce, fosse pure per la voluta e dilatata scansione, a trascinarci in una trama quasi depurata da ogni riferimento mediato, cogliendo delle cose la materia e le orme. Ben consapevole infine che occorre molto aiuto per non dividersi in più parti, per "tendere a un pensiero calmo e puro". Molto ricorda il primo Bertolucci, come indica Santagostini, ma c'è anche una vaga atmosfera luziana, magari proprio quella dei Colpi, lì dove si evoca il lavoro della terra e dove per entrambi è la "potatura" a segnare il passo di un qualche bene. Qualcosa quindi che ha inevitabilmente bisogno di essere amputato, tagliato, inciso per rinvigorire. Quasi un senso alle "tregue" che queste "poesie della terra" ci impongono, un significato ad altre "potature", alla necessità di un viaggio introspettivo (e autocritico) dove diventa imprescindibile liberarsi di quell' "in più" che abbasserebbe il calibro, aumenterebbe il deterioramento.
Poesie della terra compaiono inoltre in versione spagnola, sempre per i tipi LietoColle (Poemas de la tierra), nella traduzione curata da Martha Canfield, che dà qui un'ulteriore prova della sua sensibilità al linguaggio offrendo una versione che potenzia ancora di più la suggestione delle immagini. La trasposizione di Canfield si articola secondo un movimento aperto, una sorta di viaggio che riesce a darci la percezione immediata dei luoghi, memoria e riflessione, ed è all'interno della dinamica musicale che stride ancora di più il paradosso della contemporaneità, di un progresso, come riporta Canfield nell'articolata prefazione, che non può ignorare eventi tragici e apocalittici. Ecco quindi anche una "doppia circolarità", rispetto alle opere precedenti. Un poeta, Brandolini, che aveva volto le spalle alla terra, per poi volgere le spalle alla città, nota la critica. Non per questo l'autore non denuncia con disincanto il doppio vincolo che ci stringe, l'assurda e complicata possibilità di coniugare una civilizzazione armoniosa.
dal sito Fucine mute, 69, novembre 2004, di Christian Sinicco (inizio)
La terra è ancora nostra
Studiando la raccolta Poesie della Terra (Lietocollelibri, Como, 2004) di Alessio Brandolini e ricordando Divisori Orientali, il volume precedente dell'autore, troviamo tratti distintivi di una formatività comune: la tendenza alla descrizione minuziosa sia per ciò che concerne la mimesi, sia nello spostamento repentino da quest'ultima per approdare ad un qualcosa nei pressi di una ulteriore visione, che condensa i sentimenti raccolti precedentemente.
Una serie di appunti dolenti, dal momento che ho conosciuto personalmente i destinatari di questa critica: la prefazione di Mario Santagostini non tiene in primissima battuta (l'ambiente letterario esprime poeti in veste di critici, ma la persuasione nei confronti di un pubblico, pure di addetti, non convince più). L'essere presentati da autori un po' più conosciuti nell'ambiente è un debole farmaco, quando invece bisogna rilanciare il dibattito, confrontarsi con pubblico e critica. In secondo piano, sotto silenzio, non possono quindi passare le note di Santagostini, che esprimono un deficit di motivazioni.
Tirando in ballo Bertolucci per spiegare Brandolini, il mio consiglio è quello di evitare paragoni su spazi verbali assai ristretti e quote di inafferrabilità tesissima, di mistero: l'invenzione della categoria spazi verbali assai ristretti, ad opera di Santagostini, non chiarifica il procedimento che porta a compimento un'opera d'arte, in questo caso un testo di poesia - è come partire dalla carrozzeria per costruire un'automobile, senza sapere i dati tecnici di tutti gli altri elementi, e non ultimo il motore -; evocare l'Attilio Bertolucci di Sirio e Fuochi di Novembre, non costruisce fatti; poi, con sincerità, ho visto più intelligenza nel mimetizzare la realtà che mistero in Poesie della terra.
Inoltre non trovo necessario che Santagostini scriva "Risalendo ancora più indietro (al lettore compete anche questo, credo), potrei intravedere una costellazione assai vasta di influssi": al lettore compete risalire più indietro del Bertolucci, e per quale motivo o credenza? La poesia di Brandolini non può essere letta senza una ricerca? Quel potrei vuol dire che puoi, ma allora perché non lo fai, rimani nel vago?
"Usare le parole con parsimonia è la via della natura" dice Lao-tzu nel Tao Te Ching, e sarebbe meglio trattare la raccolta presa in esame per quello che è. È bene citare - ciò risulta appropriato -, ma bisogna anche rifornire di differenze dal modello letterario preso a prestito - in questo caso Bertolucci - e non trattare la poesia attraverso ricordanze, attribuzioni di credenze, condizionali.
Innanzitutto i luoghi della natura, che l'autore nato a Frascati descrive, sono circoscritti e analizzati da dettagli - Bertolucci corre da una parte all'altra del testo lavorando un discorso: la descrizione della natura è mediata da una coralità di ricordi, di luoghi aderenti a sensazioni come in un caldo sogno.
Brandolini ha l'esigenza di tratteggiare, alle volte marcare, i gesti compiuti, gli eventi, per farsi del materiale della terra, potando la natura che ha integrato dopo essersela appuntata come rami, foglie, germogli - Bertolucci cerca nella formatività creatrice di paesaggi la via che conduce alla libertà, alla possibilità di un repentino esodo come quello di un Mosè ritratte le acque, lo stupore inconscio presso la meraviglia, la paura, la felicità.
Brandolini descrive con macchie d'inchiostro la terra nata o ricostruita in sé, il padre a lui caro, i luoghi, i bambini, le parole in fiore; è intimista osservando il padre, i figli; e sperde l'acqua per creare un ambiente, dipinge la macchia cresciuta nel modo più secco: "Fragole acerbe / piccole e tonde / nell'angolo dell'orto / nascoste / dietro e sotto / i cespugli d'alloro / sul crinale del fosso. // Le parole in fiore / sono funghi cresciuti / nel legno / chiaro dei lecci / e tu che annaffi / le pietre / per vederle affondare."
La poesia di questo autore nasce dal bisogno di riflettere nel presente senza disattendere la propria capacità di osservatore appostato da lunghi periodi, e sempre grazie a elementi che lo hanno coinvolto: per questo oggi parla del lavoro nei campi, della terra. La proiezione delle immagini segue dettagli precisi e la costruzione (dalla maiuscola fino al punto per intenderci) è delimitata dal significato utile alla descrizione: per questo procede grazie a quadri e in serie. Quando il poeta sente che i quadri che ha descritto sono capaci di dare prova di un mondo, si ferma a guardare per un attimo ancora e piano si allontana per osservare con altri occhi: questo dà l'impressione di essere nei pressi di una visione ulteriore:
I fichi hanno le dita largheLa terra è ancora nostra o no?
le loro foglie sorreggono l'aria
calda di giugno
e le vene scoppiano di gioia.Anche a settembre danno il frutto
e ce ne sono di quelli neri
ma dolcissimi che strappano
la voglia di fuggire.Più in là s'agitano le foglie
verde-smeraldo del grande susino
giocano con l'aria e per ore
parlano senza un attimo di tregua.
Con la zappa fino al tramonto
ad accarezzare la terra
intorno al tronco,
a divorarla con gli occhi.
Certo non dissento, e dopo che farei?
Però nel frattempo rinnovo casa
mi trasferisco
in un angolo di strada.
Sì, trasloco fuori città
magari in un bosco
mi stabilisco in una quercia cava.Un mondo rinforzato da vitamine e sali minerali
certo più sicuro per via degli antifurti
delle porte blindate, dei cancelli sbarrati
con paletti e lucchetto
di libertà sigillate in cassaforte
in attesa di tempi migliori
di un nuovo perfetto equilibrio.Non sentirò il bisogno
d'avere una parte di tutto.
Avrò poco e quel poco mi basterà,
non sentirò la fretta di consumarlo.
Farò a meno di appigli e stampelle
lascerò la porta spalancata
sarò felice di ricevere ospiti e amici.Tanto la pioggia cancellerà le impronte
diverrà impossibile tornare indietro.
da El Nuevo Herald, Miami (inserto culturale "Artes & Letras"), 31 ottobre 2004, di Juana Rosa Pita (inizio)
Alessio Brandolini peregrina a su campo El rumor citadino y la culta luz de la Piazza Navona brillan por su ausencia en la tercera entrega del autor de Divisori orientali (Premio Alfonso Gatto 2003), el poeta romano Alessio Brandolini. Poemas de la tierra (LietoColle, 2004) es en cambio un breve y hondo poemario en que el campo natal con sus árboles y frutos adquiere protagonismo y magisterio: paciente espejo de la implacable mecanización de la civilización moderna que maternalmente alberga restos de la antigua en sus entrañas. Debemos a la poeta Martha Canfield --tan querida en Montevideo como en Bogotá y en Florencia, en cuya universidad es profesora de Literatura Hispanoamericana-- el tenerlo tan pronto bellamente traducido y publicado al español en la propia Italia. Al final de su presentación inicial, dice Canfield que "la esencialidad del mensaje" le hizo más fácil efectuar el pasaje a nuestra lengua. Y en efecto, en la lectura de estos poemas, como ella misma sostiene, el poeta nos acerca a un lenguaje que ''como la azada del padre, trabaja en profundidad, pero acariciando ... abre surcos profundos en los que el lector viaja reconociendo y aprendiendo. Así el traductor''. Mediador por excelencia. Tanto en el hombre como en el campo, podrá estar castigada la naturaleza, ''el sol ahorcado entre las ramas'' o la madera del olivo escamada por pétalos de girasol; pero cavando hondo bajo el cesped - abrigo gastado/ militar - es posible encontrar luminosos fragmentos/ de mosaicos romanos. La humanización de la naturaleza comienza por los árboles: los cipreses tienen bolsillos en que la luz mete enrolladas tiras coloridas de paisaje. Algo muy diferente a que los hombres sean como árboles por su dureza y parquedad: operación imaginaria que en su pueblito montañés hizo hace cien años el protagonista de la primera novela de Herman Hesse, Peter Cemenzind: "considerar a los hombres como si fuesen árboles, sin reverenciarlos ni amarlos más que a los pinos silenciosos". Brandolini por el contrario ve en los árboles todo el genuino calor humano de la gente sencilla de Italia que Camenzind descubrió más tarde en Umbría y la Toscana: una solidaridad tan efusiva y confiable como la de su propio padre: los abetos que ahoraEn la tierra de Virgilio y de Pascoli los árboles exhiben el moho/ de la buena educación y en ocasiones los granitos hinchados del malhumor. Gozan y padecen como nosotros y al hacerlo se ganan nuestra confianza, nos acercan lo eterno al compartir el tiempo humano, escandiéndolo veloz o lentamente como las hojas que van y vienen cuando los dedos desnudos de los pies/ acarician la hierba/ les hacen cosquillas a las horas. El tiempo humano y el de la naturaleza se acoplan al igual que en el mito o el jardín de la infancia. Como los peregrinos al santuario de su devoción, el poeta vuelve al campo a hacer silencio: quiere lograr la calma y pureza de pensamiento originarios que le abran luego rutas esperanzadas. Es así que uno regresa a casa/ llevando en la boca/ el único durazno/ que se salvó de la helada. La cercanía de la tierra va limpiando poco a poco los ojos al poeta de imágenes de horror y de violencia tan abundantes estos tiempos: comienza entonces a ver las analogías más entrañables, se da cuenta de que el romero tiene florecillas azules/ hojas delgadas pero puntiagudas/ como dientes de recién nacido. En la sencilla magia de la madrugada campesina sobran las lámparas: hasta 'un hueso descarnado' ilumina la noche. Hay en este peregrinar a la tierra que sufre en busca de una frugalidad liberadora, un redescubrimiento de hermandad con el mirlo y los árboles: homenaje implícito al autor del Canto al sol cuando en Asís abrió de par en par la ventana de la casa paterna y renegando de las beligerancias de su tiempo, reconcilió de un golpe de gracia al cristianismo con el amor a la naturaleza. Volverse más pequeñosEl peregrinaje ha comenzado sentado entre las ruinas del imperio, dejando escurrir el dolor adentro de un sarcófago. Termina con una conciencia clara del sentido profundo de ese su haber acudido a comunión, tal vez tardío pero benéfico. El poemario es el fruto en respuesta a la callada exhortacion de su padre, que podría resumirse así: Amala, hijo, esta es tu tierra. Y es como si en estos veintiséis poemas Alessio Brandolini hubiera salido con su padre a podar el lenguaje, para en el futuro tener brotes más tupidos y tenaces. |
Alessio Brandolini in pellegrinaggio nella sua campagna Il chiasso cittadino e la colta luce di Piazza Navona brillano per la loro assenza nella terza creazione dell'autore di Divisori orientali (Premio Alfonso Gatto 2003), il poeta romano Alessio Brandolini. Poemas de la tierra (Lieto Colle, 2004) è difatti una breve e profonda raccolta di poesie in cui la terra natia, con i suoi alberi e i suoi frutti, diventa protagonista e maestra di vita: specchio paziente della implacabile meccanizzazione della civiltà moderna che amorevolmente conserva resti del passato nelle sue viscere. Si deve alla poetessa Martha Canfield - tanto amata a Montevideo, come a Bogotà e a Firenze, nella cui università è professoressa di Letteratura Ispanoamericana - l'averla magnificamente tradotta e pubblicata in spagnolo nella stessa Italia. Alla fine della sua prefazione, Canfield dice che "l'essenzialità del messaggio" le ha reso più facile il passaggio alla nostra lingua. In effetti, leggendo queste poesie, come ella stessa sostiene, il poeta ci avvicina a un linguaggio che "come la zappa del padre, lavora in profondità, accarezzando però ... apre solchi profondi in cui il lettore viaggia riconoscendo e apprendendo. Così il traduttore". Mediatore per eccellenza. Sia nell'uomo che nella terra, potrà essere castigata la natura , "il sole impiccato tra i rami" o il legno d'ulivo sfaldato dai petali di girasole; ma scavando in profondità nel prato - logoro cappotto/militare - è possibile incontrare luminosi frammenti di mosaici romani L'umanizzazione della natura comincia dagli alberi: i cipressi hanno piccole tasche in cui la luce infila arrotolate strisce colorate di paesaggio. E'molto diverso per gli uomini essere come gli alberi a causa della loro durezza e parsimonia: operazione immaginaria che nel suo paesino di montagna fece cento anni fa il protagonista del primo romanzo di Herman Hesse, Peter Cemenzind: "considerare gli uomini come se fossero alberi, senza ossequiarli né amarli più dei silenziosi pini". Brandolini invece vede negli alberi tutto il genuino calore umano della semplice gente italiana che Cemenzind scoprì più tardi in Umbria e in Toscana: una solidarietà tanto espansiva e fiduciosa come quella del suo stesso padre: gli abeti che oraNella terra di Virgilio e di Pascoli gli alberi esibiscono la muffa/ della buona educazione e talvolta i brufoli infiammati del malumore. Godono e soffrono come noi e per questo conquistano la nostra fiducia, ci avvicinano l'eterno condividendo il tempo degli uomini, scandendolo velocemente o lentamente come le foglie che vanno e vengono quando le dita nude dei piedi/ accarezzano l'erba/ fanno il solletico alle ore. Il tempo degli uomini e quello della natura si accoppiano come nel mito o nel giardino dell'infanzia. Come i pellegrini al santuario della loro devozione, il poeta torna alla campagna per fare silenzio: vuole trovare la calma e la purezza dei pensieri originari che gli aprano poi le strade della speranza. Ed è così che si ritorna a casa/ con in bocca/ l'unica pesca/ sfuggita alla gelata. La vicinanza della terra poco a poco pulisce gli occhi del poeta dalle immagini di orrore e violenza così copiose in questi tempi: comincia allora a vedere le analogie più interne, si rende conto che il rosmarino ha piccoli fiori azzurri/ foglie sottili ma aguzze/ come denti di neonato. Nella semplice magia dell'alba contadina le luci abbondano: persino un osso spolpato illumina la notte. C'è in questo pellegrinaggio alla terra che soffre alla ricerca di una frugalità liberatoria, una riscoperta di fratellanza con il merlo e con gli alberi: omaggio implicito all'autore del Canto al sole quando ad Assisi spalancò la finestra della casa paterna e rinnegando le belligeranze del suo tempo, riconciliò con un colpo di grazia il cristianesimo e l'amore per la natura. Farsi più piccoliIl pellegrinaggio è iniziato seduto sui ruderi del tardo impero, lasciando scolare il dolore dentro un sarcofago. Finisce con la coscienza chiara del senso profondo di questo suo comunicarsi, forse tardivo ma benefico. Questa raccolta di poesie è il frutto, in risposta alla silenziosa esortazione di suo padre, che potrebbe riassumersi così: Amala, figlio, questa è la tua terra. Ed è come se in queste ventisei poesie Alessio Brandolini fosse uscito con il padre a potare il linguaggio, per avere nel futuro germogli più fitti, più tenaci. (Traduzione di Brigidina Gentile) |
da DAEMON, n. 18, ottobre 2004 (inizio)
Alessio Brandolini, Poesie della terra (LietoColle)
Finalmente occidentale questo libretto o poema (o libretto-poema) dal ritmo volutamente monocorde e ricorsivo. È una poesia del fare: Poesia della terra rivangata e lavorata, delle stagioni e della memoria. È anamnesi. Ed è una terra gravida quella di Brandolini:
Ma se qui scaviE poi improvvise, attuali visioni:
trovi schegge di vetro
abbaglianti frammenti
di mosaici romani.
E' come se fossi inchiodato
allo stesso divisorio orientale
o al grattacielo americano
che si disintegra con un boato.
da Specchio (La Stampa), 11 settembre 2004, di Maurizio Cucchi (inizio)
Alessio Brandolini, Poesie della terra
Dopo Divisori orientali (Manni, 2002), Brandolini in questo nuovo libro parla della terra, facendo riassaporare climi e circostanze di una tradizione non proprio vicinissima. Santagostini, introducendo, fa i nomi di Bertolucci e Pascoli. L'originalità sta proprio nella scelta di un tema poco presente nella poesia d'oggi e nell'equilibrata asprezza espressiva con cui l'autore sa proporcelo.
da 30 GIORNI, n. 9, settembre 2004, di Cristiana Lardo (anche nel sito web della rivista) (inizio)
Questa terra è la mia terra
Certo è presto per dirlo. Ma si può già ipotizzare che il percorso poetico di Alessio Brandolini porterà il lettore lontano, verso strade poco attese. La tentazione, a questo punto, è quella di fare un riferimento che sembra inevitabile: la terra-poesia, comprese quelle "strade poco usate che riescono agli erbosi fossi" di montaliana memoria. Poesie della terra (LietoColle, Faloppio - Como - 2004, pp. 47), invece, è un poemetto che spiazza. Supera, conoscendolo bene, e brucia il famigerato "canone letterario" come le sterpaglie di pagina 20:
Diamo fuoco all'erbaIl lettore della precedente felicissima raccolta, Divisori orientali (Manni, Lecce, 2002), sulle prime è spiazzato. Imbarazzato, quasi. Si parlava della contemporaneità dall'interno di essa, senza censura. Si parlava di sentire l'oggi dal punto di vista di chi sa di esserci invischiato dentro. E qui, tutto diverso: un poemetto, un omaggio alla terra, a suo padre che la lavora, alla fatica, alla ricompensa. Agli alberi, ciascuno con il suo nome, che "abbracciano" la terra. Ai volti, ai nomi familiari che restano con lui a lavorare. Ai nomi.
asciutta e gialla
al centro del terreno
ammassata da giorni
con sopra i rami
potati sabato scorso
dei ciliegi e dei noci.
Certo non dissento, e dopo che farei?Alessio Brandolini è stato al Festival di Poesia internazionale che si è tenuto a Medellín, in Colombia, dal 18 al 25 giugno scorsi, come rappresentante dell'Italia. "La gente ti abbracciava, per conoscerti", dice ricordando l'accoglienza calorosa che a loro "poeti laureati" era riservata. Non a caso, parla di abbracci. Salta subito agli occhi che la parola "abbracciare" è in Poesie della terra in pole position. Infatti la terra di Brandolini - starei per dire "poetica", ma cadrei nella trappola del canone - è abitata. Abitata dalla natura (precisa fin alla tassonomia, talvolta, come chi sa di cosa si stia parlando), è altrettanto abitata dall'uomo. Di volta in volta un "tu", un "noi": affetti e mai paradigmi.
Però nel frattempo [...]
mi stabilisco in una quercia cava. [...]
Farò a meno di appigli e stampelle
lascerò la porta spalancata
sarò felice di ricevere ospiti e amici.Tanto la pioggia cancellerà le impronte
diverrà impossibile tornare indietro.
È come se fossi arrivato
troppo tardi, mi dico
[...]
La promessa è lo stupore
di un solco
preciso e profondo
tracciato non nella polvere
ma nella realtà, nel presente
di questo paterno terreno.
Come se a sorpresa
fosse arrivata
l'ora della semina.
da Controluce, settembre 2004, di Federico Gentili (inizio)
Quattro finalisti per il Premio Frascati
È stato reso noto il quartetto finalista che il prossimo novembre si contenderà il Premio Nazionale di Poesia Frascati "Antonio Seccareccia", giunto a pochi passi dall'importante giro di boa del mezzo secolo.
117 le opere prese in esame dalla giura del Premio, riunitasi nella nuova sede della Biblioteca Archivio Storico Comunale (BASC) di Frascati e composta da Domenico Adriano, Rosalma Salina Borello, Elena Clementelli, Arnaldo Colasanti, Maria Ida Gaeta, Andrea Gareffi, Luciano Luisi, Raffaele Mantica, Renato Minore e Ugo Reale. Le opere segnalate dalla giura sono: Lezioni di respiro di Francesco Dalessandro (Il Labirinto), Gli impianti del dovere e della guerra di Antonio Riccardi (Garzanti), L'esperienza della neve di Francesco Scarabicchi (Donzelli) e Poesie 1963-2003 di Valentino Zeichen (Mondadori).
Da sottolineare la presenza di ALESSIO BRANDOLINI, poeta delle nostre parti, nato a Frascati e vissuto i primi vent'anni a Monte Compatri. Già "Premio Montale 1991 - Sezione inediti" con L'alba a piazza Navona (Scheiwiller) e "Premo Alfonso Gatto 2003 - Opera prima" con Divisori orientali (Manni Editore). Brandolini ha partecipato al Premio Frascati con Poesie della terra (LietoColle). La terra da lui indagata è quella antropizzata dal sudore e dalla coazione a ripetere di un'antica e sapiente gestualità contadina, tramandata di padre in figlio. Una terra spaccata in grandi zolle, che avvolgono viti e ulivi nei momenti di siccità. Versi distanti anni luce da quelli che descrivevano la bucolicità oziosa di Tìtiro, e che rimandano a tempi lontani, quando i contadini uscivano di casa molto prima dell'alba per raggiungere a piedi l'appezzamento da coltivare.
Con la zappa fino al tramonto
ad accarezzare la terra
intorno al tronco,
a divorarla con gli occhi.
dal sito Vico Acitillo 124 - Poetry Wave, settembre 2004, di Raffaele Piazza (inizio)
Alessio Brandolini Poesie della terra
Già vincitore del prestigioso Premio Alfonso Gatto, con Divisori orientali, pubblicato con l'editore Piero Manni di Lecce, ALESSIO BRANDOLINI ci presenta, adesso, questo nuovo lavoro, uscito dalla complessa e notevole sua officina di poeta. A differenza del suo libro precedente, qui le dimensioni sono ridotte, a livello di numero di pagine: infatti, mentre Divisori orientali è un testo corposo e articolato, di circa un'ottantina di pagine, il presente testo, di cui ci occupiamo in questa sede, si può definire una plaquette, per le sue dimensioni ridotte a 47 pagine. Ovviamente si fa questa distinzione, non per un criterio di merito o d'importanza, ma per fare intendere che si tratta d'un tipo di elaborazione letteraria differente, anche se può apparire azzardato un paragone con la narrativa, un parallelismo tra libro di poesia e plaquette, e romanzo e romanzo breve (definibile anche racconto lungo).
Fatta questa premessa è il casa di specificare che, Poesie della terra, è uno dei moltissimi testi pubblicati dall'editore LietoColle, che ha in catalogo, oltre a poeti importanti come Alda Merini e Giampiero Neri, anche giovani poeti e poetesse di grandissimo merito, giovanissimi o giovani, come Mary Barbara Tolusso e Giovanna Frene, questa vincitrici dell'importante premio Lorenzo Montano, con Spostamento, appunto pubblicato da LietoColle. LietoColle è ormai una realtà nel panorama delle case editrici italiane ed è per alcuni definibile la nuova Scheiwiller, creatura importante, a livello di casa editrice, diretta fino a qualche anno fa dal compianto Vanni. LietoColle definisce i tuoi testi libricini da collezione ed è diretta da Michelangelo Camilliti e molti suoi libri hanno vinto premi importanti. Inoltre pubblica numerose antologie e ha all'attivo un sito molto ben curato che è sempre ben informato su tutti ciò che, a livello di cartaceo e on-line, per quanto c'è di notevole, viene pubblicato nell'ambito della poesia contemporanea italiana. Molte sono inoltre le presentazioni dei suddetti libricini da collezione che avvengono in tutta Italia, meno che al Sud. Insomma, con la formula vincente della plaquette LietoColle si colloca come una delle più interessanti e intelligenti case editrici attuali.
Entrando nel merito di queste Poesie della terra, c'è da dire che Brandolini, sfruttando la sue doti di intelligenza e di forte coscienza letteraria, ci presenta un testo compiuto e originale, che solo ad un livello superficiale può essere definito da una vena, espressione di una cifra, di un'intelligenza dolce ed elegiaca. Solo ad una lettura svagata il testo si può definire avvicinabile ai modelli di Attilio Bertolucci o Giovanni Pascoli che, con modi differenti, che in epoche e sensibilità diverse, hanno trattato il tempo della terra che, anche qui, come in loro è centrale. Invece, come dice anche Mario Santagostini nella prefazione, attenta e accurata, Brandolini non è il tardo, estremo epigono dell'immensa, italicissima, tradizione bucolica o ctonia, a partire da Virgilio. C'è da notare infatti che la terra, il lavoro che essa chiama a fare e che Poesie della terra descrivono con competenza, con cura e puntualità pignola (accuratezza pascoliana e microcosmo misterioso e protettivo del poeta di San Mauro di Romagna), non vanno certamente a far parte d'un quadro paesaggistico, ancor meno d'un idillio. Poesie espresse per frammenti brevi e verticali, quelle di Brandolini, in questo testo con spesso vere e proprie perle nei versi in chiusura, che rappresentano il massimo grado possibile di dissolvenza e magia.
I componimenti poetici sono tutti senza titolo e sono delle vere e proprie tessere musive, relative ad un discorso più vasto, legato, come genere, ad una certa, colta e profonda epigrammaticità. Il testo ne è scandito e può per questo riecheggiare, anche per l'unico argomento trattato, la natura, o per meglio dire, la terra, le caratteristiche di un poemetto. Per esemplificare leggiamo il primo componimento, l'incipit, dell'intera raccolta:
La terra è ancora nostraC'è qualcosa di atavico, qualcosa che lega il presente alla memoria, allo spazio-tempo, il cosiddetto cronotopo, in riferimento, per esempio, al paese medievale. I versi di Brandolini ritornano ostinatamente alla terra al punto da apparire mossi da un ritmo interno ossessivamente identico. Si sente implicitamente il peso degli antenati, di quelli che in situazioni diversissime da questo postmorderno occidentale hanno vissuto la terra in altro modo, terra che tra l'altro dà sostentamento, nutrimento, possibilità di vita materiale; e qui viene anche se lontanamente, l'accostamento a Ricciardi e al suo Profitto domestico.
dalle foglie argentate
che dipingono l'aria
incidono liste di nomi
le storie che ci appartengono.Non ci conosco
ma ci sentono
nel legno
nel respiro
nello sguardo
nel passo lento
che resiste ai giorni
risale fin lassù
ai muri sbiechi delle case
dell'antico paese medievale.
da Poeti e Poesia, agosto 2004, di Biancamaria Frabotta (inizio)
Poeti a Roma
È inutile ripetere ciò che è ormai ovvio.La buona poesia è equamente distribuita fra piccola, media e grande editoria e per scovarla e goderne occorrono una pazienza e un fiuto superiori a quanto fosse necessario in passato.
I libri che qui esorto a leggere, prescelti fra i tanti che hanno stazionato per mesi sul mio tavolino da lavoro, ne costituiscono, credo, una prova convincente. Il piacere e l'impulso con cui li ho letti sono gli stessi con cui li raccomando e che ha già per loro riservato una piccola nicchia di sopravvivenza in una biblioteca ormai tanto sovraffollata da imporre una selezione necessariamente rigorosa.
Quasi tutti i poeti scelti sono alla loro seconda o terza prova e hanno un'età oscillante tra i quaranta e i sessanta anni, quando cioè, se si insiste a scrivere e a pubblicare senza l'avallo di un editore di rilievo nazionale o di un'autorevole accoglienza critica (sempre più rara in un'epoca di sordità dettata dall'assuefazione dei pigri o dal nichilismo dei cinici) vuol dire che la poesia è ormai diventata una compagna permanente della propria vita e non se ne può più fare a meno. Non è l'unico promotore dell'attività e del progresso, probabilmente e neppure assomiglia alla tirannica ossessione del "pensiero dominante" che assillava Leopardi.
Non sono autori molto prolifici infatti, a giudicare dalla loro sobria apparizione pubblica che potrebbe però dipendere solo dalla inesorabile logica del mercato che costringe gli editori di poesia a centellinare le loro scelte.
Ma quando infine escono allo scoperto, i loro libri sono sempre tramite di esperienza e nel variegato ventaglio di ascendenze e modelli fra loro diversissimi, hanno a che vedere non con un'esistenza d'eccezione, piegata dalla indomabile epifania del poetico, ma con una civilissima e dignitosa "normalità" di cui la poesia è solo un ospite discreto, una silenziosa convivente.
Ed ecco che questi libri, lo si intuisce a prima lettura, non migliorano la vita solo di chi li scrive, ma nei loro momenti più riusciti, emettono una luce che farà bene anche al cuore dei loro lettori.
Intanto cominciamo col dire che qui si parlerà solo delle opere di autori nati a Roma o in territori limitrofi .E la scelta non obbedisce soltanto a un criterio puramente convenzionale come quello che sottostà a ogni rassegna critica collettiva. Negli ultimi decenni dello scorso secolo, qualcuno volle disegnare una mappatura geografico sentimentale della poesia romana, magari contrapponendola all'eticità più sobria e dimessa della "linea lombarda" storicizzata in famose antologie degli anni Cinquanta. L'impresa non risultò facile, nonostante, e forse proprio a causa dell'ingombrante presenza di Belli e del suo inimitabile statuto linguistico. Il geniale poeta dialettale, come aveva già perfettamente intuito Pasolini, restava un unicum stellare e inavvicinabile. Forse più significativa e destinata a un seguito fu la cometa corazziniana che sembrava trascinare la sua scia crepuscolare fino ai giorni nostri.
Ma come dimenticare la presenza romana di Ungaretti, cosmopolita e quasi apolide nel suo classicismo contaminato di tutto il barocchismo implicito nel simbolismo della modernità? Troppo pochi prima di lui gli autoctoni novecenteschi: Cardarelli, per esempio, fautore di un ritorno all'ordine che ancora oggi ne impedisce l'equa valutazione critica. E, dopo di lui, che ruolo hanno ricoperto nella individuazione di una categoria storiografica, poeti come Vigolo, straordinario editore di Belli o E. F. Accrocca, neorealista cantore delle nuove periferie accompagnato però sin dal suo esordio da una famosa prefazione di Ungaretti?
Soltanto dopo che il fiato appannante del tempo sbiadì questi nomi nel crudele gioco delle mode o nella spesso inutile guerra delle poetiche, Roma divenne la capitale prescelta da quegli straordinari provinciali dell' "antinovecento": gli emigrati che a Roma vennero in cerca di libertà, di lavoro, di fortuna, e magari di un centro su cui per differenza fondare la nostalgia della loro piccola patria perduta. Parlo naturalmente di Penna, Bertolucci, Caproni, Pasolini e del loro sogno tutto italiano di una marginalità rivissuta e ricreata come memoria e utopia. E saranno proprio questi poeti (legittimati dalla scelta romana di Saba che apparve di colpo come un comune archetipo, un venerabile e venerato capotribù dell'antilirica) a insediarsi nell'immaginario di chi, nel corso degli anni Settanta, li eleggerà a maestri di un nuovo principium individuationis, a garanti di un mito della chiarezza e della cantabilità, della passione e del "cuore" che battono ai margini, se non contro l'ardua negatività della lirica pura di derivazione petrarchesca. E la loro lezione tornerà a rivivere nell'incremento postumo dei più consapevoli, da Dario Bellezza a Elio Pecora, da Patrizia Cavalli a Anna Cascella, da Renzo Paris, pasoliniano antologista dell' "Io che brucia", fino, all'inizio degli anni Ottanta, agli sdegnosi affiliati (Salvia, Sica, Damiani) di esoteriche rivistine come "Braci" o "Prato pagano". Ma oggi, dispersi i crepuscoli di quella malinconica e "innocente" postmodernità, quel mito vanta ancora la stessa intensità di attrazione, la stessa magnetica esemplarità di alternativa e rinascita?
A leggere Il giardino urbano (Empirìa,2003) di Fabio Ciriachi, nato a Roma nel 1944 e già apprezzato autore de L'arte di chiamare con un filo di voce (Empirìa,1999) sembrerebbe di sì. Un celebre verso di Penna ("...Ma non saremo che noi stessi ancora") è invocato a sostenere il peso quasi religioso di una persistenza, di una devota continuità mai vezzosa, mai rococò, come pure accade in certo pennismo di maniera. E anche la fedeltà alla strofe breve, quattro o cinque versi arieggianti alla netta misura dell'endecasillabo, esprime una riconoscibile fedeltà come il pur parco ricorso a luminosi, felici, distici ("E' bastato di sera udire un nome/e tutto un mondo è nato che non c'era").E poi ancora certi ineluttabili paesaggi signorilmente e dolcemente lapalissiani, come questo su cui vasto si distende anche il nostro sguardo: "In certi giorni la pace dei boschi/dove risuona lontano un trattore/somiglia a quella del mare all'alba/attraversato da un gozzo a motore." Molti versi sarei tentata di citare da questo libro di limpidi squarci campestri e cittadini: in primo luogo la bella poesia eponima del libro, Il giardino urbano, sorprendente e racchiusa come una gemma in una tenera polpa che la sostiene e la nutre. Ma anche altri, disegnati da una mano sicura, senza sicumera, con la semplice saggezza di una dizione che s'inoltra nel bianco della pagina non ad eludere misteri, ma a nominarli, quando ci riesce ,a circoscriverli, quando li incontra nell'unico "percorso da seguire".
Altrimenti desiste, cede, come l'albero non distante dalle radici, ma docile all'urto del vento "maestro d'inchini", "al flettersi in funzione del durare".E' questa una poesia della vita, non immemore della storia (vedi la straziante Gas,scritta in memoria delle donne cecene uccise a Mosca nel settembre del 2002: "Così le avete lasciate,sedute/ai loro posti.."). Ma in sé rimodula anche l'eco di una stringata filosofia del "tempo che resta", di una sussurrata poetica della insecuritas su cui alligna solo la più incrollabile fede ("Io so che quando scrivo prego, credo") e di un affabile, quasi schubertiano stoicismo: "Noi possediamo solo alcune vite./Ogni volta che stiamo per morire/sopravviviamo perdendone una/fin quando non ne resta più nessuna".
In un'area contigua, ma indipendente crescono invece le Poesie della terra (LietoColle,2004) di ALESSIO BRANDOLINI, nato a Frascati nel 1958 e pervenuto alla sua seconda prova dopo l'interessante, ma un po' slegato esordio di Divisori orientali (Manni editore, 2002).
Anche Brandolini che dedica il suo libro al padre contadino, scrive una poesia povera, scandita lentamente su scalate particelle emotive in apparenza spuntate come "funghi cresciuti/nel legno/chiaro dei lecci", ma in realtà concimate da una poetica di terragna solidità e solennità.
Nella sua Prefazione Mario Santagostini cita come plausibile ascendente della "dolcezza elegiaca" di questi versi, il Bertolucci delle primissime prove giovanili, da Sirio a Fuochi in novembre. E assai opportunamente nota l' "effetto di dissolvenza" che ne sfuma ogni uscita, quasi che si trattasse piuttosto di annotazioni etico agrarie, quotidiane e ricorrenti che rifuggono dunque da ogni conclusione troppo netta, da ogni tono testamentario o anche predittivo. Così che il suo ricorso ai versicoli ungarettiani, che oggi non può non suonare come un troppo facile espediente o, nei casi migliori, un consapevole omaggio "modernistico", qui contribuisce piuttosto alla tessitura della litania, alla elencazione greve e disadorna degli strumenti umani del lavoro contadino.
Siamo dunque lontano dalla stantia ripresa postmoderna del premoderno Pascoli e invece si opera piuttosto a potare e sarchiare, sperando nel miracolo di una terra-poesia che riprenda a fiorire nel segno di una generosa ricompensa al sudore della fronte di chi vi si dedica con tanta attenzione:
Riprendiamo a potareEcco un esempio della affettuosità con cui Brandolini tratta il suo verso, innestandolo nel terriccio di un linguaggio piano, mai pingue, al massimo appena smosso da metafore semplici e un po' infantili, come quelle che arricchiscono l'immaginazione che scaturisce da un'umile e antimitica contemplazione della natura civilizzata dall'opera dell'uomo:
più del solito
a corto, si dice
per avere germogli
più fitti, più tenaci.
Oltre la rete metallicaUn empito religioso (una religiosità creaturale ed evangelica sembra alitare in tutti questi poeti e non per un conformistico ossequio al clima oggi preminente) pervade anche la ben più disperata e funerea esperienza poetica di Baldo Meo che con Parole su scale (Mobydick, 2003) elabora, ustionandola al fuoco di un'autenticità vitale che ci sommerge sin dalla prima poesia, una poetica già perfettamente riconoscibile in Porte e finestre (Campanotto Editore, 1993). Dieci anni fa in una prefazione da me firmata scrivevo: "Una stanza, come una poesia, può essere aperta o chiusa, di transito o impenetrabile, riservata all'uso segreto di uno solo o adibita al soggiorno di una comunità". Anche in Parole su scale, le porte e le finestre sono i varchi consentiti dall'umana arte di edificare le case, i luoghi civili dell'abitazione e della comunicazione fra l'interno e l'esterno. In un epos domestico che molto deve ai ritmi della ferialità e della famigliarità di Bertolucci, le porte e le finestre dovrebbero ricorrere come il luogo della positività, anzi, come il minimo garantito della sopravvivenza. Ma ora qui i varchi sembrano piuttosto rinchiudersi, anche se non definitivamente, nel segno dello stoicismo montaliano. Incontriamo "finestre ignorate" e perse in interni claustrofobici, dove coraggiosamente si convive con quello che Freud chiama il perturbante: ombre, apparizioni inquietanti, morti con cui si hanno appuntamenti a ora insolita, per dirla con Sereni, o addirittura con il proprio doppio. Il ritorno dei morti è un topos che ha percorso una lunga strada da Pascoli in poi (ancora Pascoli!) ma se nello strepitoso autore de La tovaglia, bastava appunto il bianco su una tavola per scatenarne il cheto flusso, ora i morti si fanno attendere,invocare e non si decidono poi né a partire, né a restare. Ne La tua scelta che appartiene alla sezione significativamente intitolata Caienna (un carcere di massima sicurezza, come è noto) la finestra è un letto da cui si sprofonda verso il buco nero del "dissepolto": una infernale rivisitazione storica, oltre che individuale (vedi I bambini di Terezin). Non c'è solo la nominazione del "cielo sconvolto", dell' "età maltrattata", ma anche una sorta di sfida a oltrepassare il limite connaturato alla pronuncia stessa della poesia di Baldo Meo, da sempre "rassegnata" (ma "la rassegnazione è fatta di prodigi") alla prosa, alla scorrevolezza della sintassi, all'ordine interiore di una versificazione irregolare, ma tranquilla. Ora le parole disposte su scale, come nel bel Salmo che chiude il libro, vengono a forzare le porte della metafora nel tentativo di rappresentarne l'incubo, ricordandoci però che il loro vero sta, come una inalienabile rendita, nell'aspirazione alla tenerezza, alla desolata, ma paziente consolazione di una terapia famigliare che ormai coincide con la vita stessa.
con i fili spinati
stanno uno sull'altro
i rami tagliati
che seguitano a fiorire.
Un mondo su di sé rinchiuso e non immediatamente decifrabile è anche quello che traspare dall'ultima opera di Marco Caporali, Casa Bagger, una plaquette stampata dalle edizioni Il Labirinto nel 2003. Nella sua precedente raccolta, Il silenzio venatorio (Empirìa, 2001) Caporali tentò, con successo, lo sfondamento della sua usuale, intensissima concentrazione lirica, rilkiana nell'ispirazione e decisamente novecentista in alcuni degli stilemi ermetici più riconoscibili: l'assenza dell'io, la cancellazione degli articoli e in generale quell'etica della sottrazione che evidentemente oltre che a una poetica da tempo storicizzata è congeniale anche alla psicologia dell'autore. Il che, ovviamente, la personalizza e dunque anche la rinnova. Ne La gara dei presepi, sviluppo di un tema di Tommaso da Celano sulla fondazione da parte di Francesco d'Assisi del rito del presepe, la scelta stessa del poemetto obbligava Caporali ad avventurarsi nella rappresentazione di un sacro mistero, in cui il sottotesto teatrale e il sincero (anche se un po' pasoliniano) sdegno verso la mercantile "religione del suo tempo" mescolavano registri e livelli in un messaggio a più strati che coinvolgendo corpo e simulacro, realtà e apparen-za, inevitabilmente contribuivano ad aprire il suo chiuso discorso. E ne corrodevano la congenita vigilanza anche gli aforismi ispirati a Kierkegaard, o le dodici stazioni della Via Crucis, un poema teatrale che già nella messa in scena di Marcello Sambati, presupponeva una frammentaria, scheggiata, semilavorata e dunque impura coralità.
Con Casa Bagger (anche qui il sottotesto, il ritrovamento in un'isola danese dei quadri di un poco noto pittore, Svend Bagger, di cui nel libro sono riprodotte quattro incisioni, punta a destabilizzare il monologismo lirico) Caporali torna al suo consueto riserbo, al suo pessimismo esistenziale. E nella frequenza dei prefissi privativi ("la chiesa in addomesticabile","un vano inabitabile","la vita inosservata") nel rincorrersi ossessivo della preposizione della limitazione, senza, o della definizione al negativo di ogni aspetto della realtà, suggerisce un'etica della non prevaricazione, anch'essa, in fondo, profondamente religiosa. L'isola di Casa Bagger, la sua severa "fisionomia di miraggio" divengono così non certo il luogo di una devozionale consolazione cattolica, ma di una puritana, ascetica promessa che "di sé riempie/la luce dei dormienti e degli affascinati/ e in questa pausa è naturale vivere".
Con La scimmia randagia di Maria Grazia Greco Calandrone (che segue Pietra di paragone, edito da Tracce nel 1998, ma in realtà sua vera opera prima pubblicata da Crocetti nel 2003) è come se si venisse di colpo gettati in una corrente tumultuosa, torrentizia, a tratti iridescente e screziata di una moltitudine di immagini-pensieri e a tratti invece opaca, fangosa, del tutto inospitale e magnificamente altera verso le umane esigenze di un qualsiasi comune lettore. La scimmia randagia, che andrebbe collocata in una famiglia di autori di tutt'altro genere da quelli fin qui nominati, dall'Onofri della tarda maturità poematica alla rutilante sovrabbondanza di H.D. (ma non credo che si tratti di una scelta prederminata in un'ispirazione che ha tutti i caratteri dell'istintualità) narra il gaudio di una gravidanza e di una maternità portata fino al primo anno di vita del piccolo Arturo cui il libro è dedicato. La vena onirico - riflessiva della Calandrone (ma non si pensi all'automatismo surrealista o al raziocinante delirio de La libellula di Amelia Rosselli cui pure l'autrice vorrebbe rivolgersi con perentoria inappellabilità) è talmente travolgente da rischiare di irritare il suo lettore che non riesce a salvare dal flusso inarrestabile della corrente le straordinarie intuizioni liriche, le folgoranti massime morali e, soprattutto, l'inebriante frutto di quell'esaltazione mitico-panica in cui l'intera vicenda della gestazione del Figlio Voluto è innalzata fino a gareggiare con l'impeto della ricreazione dell'universo. E il canto, ora intonato nella piena voce dell'inno, ora abbassato negli struggenti rimandi alla morte di un'altra perduta madre che fa da tacito contraltare al miracolo della nascita, fonda un ardimentoso "controtempo" che, aldilà di ogni verbosità ed eloquenza, espande "la latenza di un generare immenso" in una dilatazione che travalica ogni misura, mescola prosa e verso in uno "strumento di chiarore" di grande suggestione e novità.
dal sito unn.it, luglio 2004, di Laura Ricci (inizio)
Alessio Brandolini, poeta della terra
ALESSIO BRANDOLINI, poeta emergente dopo aver vinto, nel 2003, il "Premio Alfonso Gatto- Opera prima" con i suoi Divisori orientali (Manni, 2002), continua ad imporsi all'attenzione di studiosi e lettori come una delle nuove interessanti voci della poesia italiana. Romana, avremmo potuto dire fino a poco tempo fa - perché Roma è la città nella quale vive, opera, lavora - ma dopo la sua partecipazione alla XIV edizione del prestigioso festival internazionale di poesia di Medellín (18-25 giugno 2004) in Colombia, dove con Martha Canfield ha rappresentato l'Italia, la sua figura ha acquistato uno spessore di rilievo decisamente nazionale. Martha Canfield, oltretutto, è stata la traduttrice in spagnolo della sua ultima silloge poetica, Poesie della terra, pubblicata recentemente, sia in italiano che in spagnolo, da Lietocollelibri di Michelangelo Camilliti.
Se nei Divisori orientali, dopo essere stato per lungo tempo assente dal mondo editoriale (L'alba a Piazza Navona, raccolta da Scheiwiller dopo aver vinto nel '91 la sezione inediti del "Premio Montale", risale al 1992) Brandolini offre, da coraggioso e disincantato turista volontario, un'eclettica mobile deformata/deformante visione di tanti quotidiani scenari di quel mondo occidentale in cui la vita si fa talmente spettacolo, da rischiare di scivolare dal reale al virtuale al nulla, nelle Poesie della terra il bersaglio si restringe, l'oggetto e il dire si precisano. E la ricerca, così mirata, recupera dimensione e senso, conduce a un mondo per così dire degli inizi - o senza inizi né fine - a una nominazione vergine e precisa che, nella sua inattuale essenzialità, restituisce un respiro autentico, eternamente reale, astorico.
Gli alberi sono così moderniCosì sembra guidare alla lettura l'epigrafe introduttiva di Franco Facchini.
da sembrare antichi pensieri
piantati nel respiro, eterni,
persi nella somiglianza, aperti
all'estremo margine del tempo.
Gli alberi dunque, e non solo; cespugli, arbusti, frutti, fiori contadini semplici - le rose, ginestra rossa, lavanda, piccoli azzurri petali di rosmarino - erba invasiva e ortiche e rovi, e i lavori e le fatiche, il sudore e i graffi, l'osso del collo scorticato per traslocare fuori città, stabilirsi in una quercia cava, recuperare un mondo rinforzato da vitamine e sali minerali, dove la pioggia cancellerà le impronte, diverrà impossibile tornare indietro. La terra di Brandolini tuttavia, dedicata al padre dolce e tranquillo, dialogante che da questi versi emerge come maestro di lavori campestri - quelli appresi dal poeta nella casa d'origine, sul cucuzzolo di Monte Compatri - e di calmo sereno equilibrio, non è un mondo ideale o bucolico, un eden sognato, ma una dimensione reale che concorre all'interezza. L'intellettuale che non dimentica la corporea fatica, che alla ricerca delle radici - le proprie e le arcaiche - non disdegna lo scavare non solo metaforico della zappa, rintraccia il valore salvifico degli elementi naturali e della lentezza:
Non sentirò il bisognoAlla fine del denso scarno viaggio nel cuore e nel sale della terra il cerchio non si chiude, torna a riaprirsi:
d'avere una parte di tutto.
Avrò poco e quel poco mi basterà,
non sentirò la fretta di consumarlo.
Farò a meno d'appigli e stampelle
lascerò la porta spalancata
sarò felice di ricevere ospiti e amici.
È come se dovessi ricominciarescrive l'autore. E, a sottolineare la semplicità solo apparente di queste liriche sedimentate evocative allusive, giocate su vari piani nell'approfondimento delle emozioni e della parola, così conclude:
tutto dall'inizio, dai primi
stentati passi
Farsi più piccoliChe sia questa, infine - la leggerezza, la sottigliezza - la possibile libertà di un mondo per troppi versi fagocitante, blindato; l'armonica salvezza di un rinnovato necessario riconoscimento, di una ritrovata nominazione dell'ambiente naturale?
per dormire nei nidi degli uccelli
più agili per arrampicarsi sugli alberi
più leggeri per stendersi sui rami
per poi potarli e raccoglierne i frutti.
Più sottili per passare
tra le sbarre dei cancelli.
La poesia è, per eccellenza, mescolanza sapiente di etica ed estetica, ben lo sapeva Saffo, che non operava differenze fra il buono e il bello. E se nel concetto di estetica rientrano il ritmo, la struttura, la costruzione del discorso poetico, di certo non vi sono estranee le suggestioni della presentazione editoriale. Alla secca meditata eleganza di questo poemetto ben si accorda la raffinatezza di quei piccoli grandi libri che sono i "libriccini da collezione" di LietoColle, rilegati artigianalmente, accurati nella grafica, con le belle ricercate illustrazioni dai bruni, all'ocra, al terra di Siena incollate a mano. Nulla è lasciato al caso, sulla cura della parola del poeta - della terra - ben si innesta l'amoroso scrupolo, il gusto del lavoro ben fatto dell'editore.
da IL GAZZETTINO, 19 aprile 2004, di Mary Barbara Tolusso (inizio)
Alessio Brandolini, i versi della terra nella riserva dell'inattuale
Dice bene Mario Santagostini nell'introduzione a queste Poesie della terra di Alessio Brandolini, uscite ora per Lietocolle: una sorta di itinerario che si inoltra nell'inattuale, tentando di raggiungere quel sé più autentico, elementare, liberandosi dalle scorie della modernità. Dopo Divisori orientali (Manni), dove la contemporaneità rimane stretta nella morsa dei suoi effetti (in piccoli o grandi quadri), Brandolini sposta l'obiettivo a una "apparente" scelta, circoscrive un percorso: una terra data in sequenze descrittive e coerenza di sguardi, dal tono "elegiaco", forse, ma dove ogni passaggio fisico e temporale ristabilisce quel "contatto" che, in qualche misura, si vorrebbe perdere, inquinato com'è dai "frutti" della civiltà. Se un tempo erano i "divisori" a indicare una precisa biforcazione, ora è la terra che distingue lo sguardo e detta, nei suoi cicli naturali, la semplicità del gesto perduto. Lo sanno i padri, quei padri per cui non è difficile ottenere "germogli più fitti, più tenaci", mentre i figli si prestano all'artificio di un rinforzo "da vitamine e sali minerali". Ma certo non basta. Non basta allungare la vista su un paradiso perduto e ritrovato. Certo non è difficile vagheggiare un ritorno, magari trasferirsi in un bosco o in una quercia cava, lavorarla, quella terra, traducendo la fatica (fatta di una genuinità smarrita) in benessere essenziale, ma, ci si chiede anche: e "dopo che farei?". E il testo si fa più intenso là dove la frontalità è secca, dolente, spezzata com'è tra "libertà sigillate in cassaforte" e la possibilità di un mondo altro, vero, eppure lontano, fatto di vite e morti che rispondono unicamente a un ciclo naturale, senza ulteriori contaminazioni.
La struttura poematica ci racconta una storia, mette a fuoco ogni singolo gesto, foglia, radice, calcola il peso della scelta, confronta gli esiti (di natura e cultura), traccia, per quel che possibile, un'etica. Eppure riesce, fosse pure per la voluta e dilatata scansione, a trascinarci in una trama quasi depurata da ogni riferimento mediato, cogliendo delle cose la materia e le orme. Ben consapevole infine che occorre molto aiuto per non dividersi in più parti, per "tendere a un pensiero calmo e puro".
da L'AZIONE, 3 aprile 2004, di Alessandro Moscè (inizio)
POESIE DELLA TERRA
Alessio Brandolini è un giovane poeta (nato a Frascati, residente a Roma) che si muove su quella linea "domestica" della poesia italiana del Novecento, prevalentemente incentrata sui luoghi: luoghi terragni, luoghi fisici e spirituali, luoghi di mistero e di rivelazione al tempo stesso. Potremmo partire da Pascoli per segnalare gli antesignani di un verso aderente alle motivazioni dell'appartenenza, a quella località, che fa rima con universalità, citando Paolo Volponi. E poi Saba, Caproni, Bertolucci, Loi, Piersanti fino a Benzoni, a Damiani, a Tornar, per rintracciare gli ultimi poeti, i più giovani.
La terra è ancora nostrascrive Brandolini. Ecco il mito dentro la storia, ecco il respiro dello sguardo nell'antico paese, la lunga eredità lasciata da un mondo in via di estinzione, un mondo collinare e dolce. Poesie della terra è il titolo di questa plaquette che è uscita per un editore giovane, uno stampatore domestico (LietoColle) che ha ancora l'accortezza di curare a mano i propri "piccoli capolavori", in un mondo editoriale sempre più contraffatto da inquinamenti di ogni tipo. Le parole in fiore di Brandolini, per usare un suo verso, coincidono con l'aria della campagna, con la promessa e lo stupore, con un'intimità svelata tra realtà e sogno perfettamente in simbiosi:
l'abbracciano gli ulivi
dalle foglie argentate
che dipingono l'aria
incidono liste di nomi
le storie che chi appartengono
Gli alberiQuel passaggio sbarrato sembra essere l'accesso per cogliere la verità di sostanza e di amore insita nella terra, scolpita nella corteccia come nell'aria. Se Alessio Brandolini ha fiducia nella poesia, come sostiene apertamente, questi versi lo dimostrano. Il tono è di chi ama una vitalità che può essere dissotterrata anche dai pozzi, che si annida dove meno ce lo aspettiamo. Egli scuote l'uomo e il paesaggio, questo eterno rivelatore a cui troppo poco spesso guardiamo.
sono stati abbandonati?
non hanno più nome
sotto la spessa corteccia
c'è solo un buco
un passaggio sbarrato
privo di linfa
un nido di muffa, di tarli.
dal sito Transference, aprile 2004, di Erminia Passannanti (inizio)
Memoria e presente in Poesie della terra, di Alessio Brandolini
La raccolta Poesie della terra, di ALESSIO BRANDOLINI (Lietocolle, 2004), si apre con una dichiarazione di possesso, che non è del singolo ma di una collettività di individui, per la quale la terra ha un valore fondante, affettivo, normativo, dunque d'appartenenza: "La terra è ancora nostra/ l'abbracciano gli ulivi [ ...] incidono liste di nomi/ le storie che ci appartengono".
La terra è detta depositaria di una memoria condivisa, che trascende i registri dell'anagrafe. Il nome di ciascuno, infatti, non appare importante: quel che conta è la percezione che la natura ha della presenza umana come lavoro, manutenzione ciclica, dunque continuità. Una volta giunta l'emblematica ora del tributo da pagare alla tradizione, Brandolini ricorre all'uso del pronome personale 'noi', facendo partecipe il nucleo familiare d'ogni suo gesto verso la terra, che si vuole onorata come "paterno terreno".
La forza e la durata di tale rapporto sono conferite dalla fedeltà dell'uomo al suolo e alla memoria, e dalla (ri)consegna di sé ai luoghi e alle stagioni in cui questa relazione con la natura si fa fruttuosa, significativa. Si tratta di momenti a cui Brandolini si appella nel suo ritorno "all'antico paese medievale". Nel suo penetrare all'interno dei tempi della semina e della raccolta, il poeta acquisisce una misura esatta del suo essere noto alla terra, per la quale la presenza umana è principio di conoscenza, che si attua attraverso "il respiro", "lo sguardo", "il passo lento". La terra ansima, vive la sua esistenza millenaria, che è custode dei morti.
Privo di titolo, ciascun componimento si configura, per questo motivo, come frammento di un unico poemetto, avente a tema la riconquista problematica del passato, come vicenda personale e come storia comune. Il secondo frammento si apre con un'ipotetica "È come se...", che si riconferma nell'anafora della seconda stanza, in cui il poeta manifesta la sua paura di essere - come Cristo e come l'uomo ordinario - inchiodato al mondo al di là delle proprie coordinate esistenziali ("è come se fossi inchiodato/ allo stesso divisorio orientale/ o grattacielo americano/ che si disintegra con un boato"). La memoria si pone come deriva, non come testimonianza, corrente che devia il corso del "solco preciso e profondo" che l'aratro, come la penna, traccia nella realtà.
Vige, sull'operatività "affannata" dell'uomo, il segno del lutto, che il merlo commemora con i suoi voli che tracciano "uno sciame di croci/ in fuga dalla terra." Teso all'ascolto delle voci al di là della propria coscienza, il poeta percepisce la presenza di una moltitudine di creature, le quali affollano un microcosmo operoso. Questo cenacolo d'insetti invade anche il sarcofago in cui il poeta immagina se stesso sepolto, mentre il corpo si decompone nel rimpianto del vissuto.
Se, dunque, la prima tendenza favorisce la riproduzione della realtà, la seconda concede sfogo alla fantasia, piegando alla soggettività la concretezza delle radici, delle foglie, dei germogli, mettendo, in tal modo, in atto lo specifico poetico, la sovranità dell'arte nella propria sfera. Nell' "osso spolpato", nel "pianto del sole", si racchiude la rappresentazione iconica di tale semantica.
La morte non è una dimensione statica, bensì dinamica, in cui l'ente materiale lascia impercettibilmente scorrere il dolore della vita che ha abbandonato. I ruderi (p. 18) rappresentano un passato interiorizzato che consente quest'interazione tra il poeta, la terra, la storia defunta ("snodo le vene/ le ossa/ i bulloni"). La ricerca della memoria si fa gesto archeologico, che ne recupera il volto in effige, immagine speculare che appaga e consola, ma anche assilla e tormenta ("raschiarlo per sempre/ dalle pareti/ arcaiche della mente", p. 19).
Nel frammento "Diamo fuoco all'erba" si fa strada la necessità di un gesto purificatore (si pensi a La luna e i falò, di Pavese) che nel presente ordina il reale, ma che mette simbolicamente ordine nel passato, liberandolo la memoria da scorie invalidanti. Si tratta di un moto di notevole nitidezza lirica, in cui il realismo delle azioni non preclude l'espandersi di un'atmosfera magica, e arcaica, conferita dalle fiamme del falò. Si rilevano verbi di movimento "da/a", quali "fuggo in macchina", "prosegue il lavoro", "si muove a scatti", "si dissolve", che rendono il flusso ondulato della natura nel suo svolgersi sotto le mani dell'uomo, con padre e figlio che ne conquistano all'unisono il ritmo tramite sia il lavoro manuale sia la poesia.
Si tratta, dunque, di una rivisitazione idealistica della terra d'origine, che avviene all'interno di una mente moderna, in cui il dissidio tra vita cittadina e vita agreste ("mi trasferisco in una quercia cava", p. 23) è non solo occasione retorica per la commemorazione della figura paterna, ma anche esposizione di un conflitto da risolversi sul piano pratico ("Però nel frattempo rinnovo casa. Mi trasferisco/ in un angolo di strada"). E tuttavia, sulla pagina scritta, scorre il vagheggiamento dell'essenziale, dell'originario, come se la terra fosse depositaria della possibilità di riconquista dell'interezza perduta, o della realizzazione di un "nuovo perfetto equilibrio", che recuperi il concetto di sé coltivato nell'infanzia con l'acutezza e il nitore che si manifesta nelle foglie del rosmarino, aguzze "come denti di neonato" (p. 37).
Tra le azioni che designano il percorso a ritroso del poeta attraverso i luoghi della memoria c'è il trovare, il raccogliere, il riportare a casa i frutti che la terra dona, prodotti segnati dal sole, che conferisce loro intense sfumature cromatiche. La raccolta, in tal senso, ripone interamente la sua magia e i suoi enigmi su effetti di sinestesia, che riproducono e attualizzano le potenzialità percettive dell'universo sensoriale infantile, in modo da rendere il quadro globale di ciò che il poeta captò con passione da bambino e che, oggi, trasmette al lettore con mediata forza emotiva:
Si raggiunge la calmaQuesti versi costituiscono un punto nodale nel tessuto concettuale della raccolta, in quanto non solo riprendono ed amplificano spunti tematici precedenti, ma riportano la concretezza all'astratto, per cui "crepe nel soffitto" diventano "un lago", "i pensieri" cambiano rotta "su una zattera rudimentale". La pesca "sfuggita alla gelata", che il poeta coglie e porta a casa, tenendola in bocca, offre qui la resistenza semantica della parola con referente naturale al consumo indifferenziato che ne potrebbe fare l'uomo, tramite il linguaggio poetico.
con la camicia pregna di sudore
presto ci si abitua al soggiorno
fuori del chiasso
così le crepe del soffitto
diventano un lago
dove galleggiano i pensieri
o cambiano rotta
su zattere rudimentali
o veloci barche a vela
ed è così che si torna
a casa con in bocca
l'unica pesca
sfuggita alla gelata.
Ma ci si adatta prestoConcluderei indicando l'aspetto metacritico e autoreferenziale del frammento "Quasi sempre il fatto più strano...", che pone l'accento sulla dicotomia realtà/immaginario, come principio fondante su cui si costruisce la parola poetica. L'impressione di realtà invoglia il lettore a farsi "testimone oculare" del narrato, ma in questa sequenza di versi, prendendo le mosse da un'analisi del senso allegorico della realtà, che la poesia interpreta, il poeta rimanda alla responsabilità del lettore di farsi giudice del contenuto testuale:
come se questo fosse
il necessario tributo
per assorbire il colpo
dell'abbandono e dell'attesa.
Allora non si ha
più nulla
di retorico
o di letterario,
di banalmente
profondo.La primavera oggi si spezza
e spazza via l'illusione
d'avere montagne di terra
da stendere sul pane.