La poesía cruza la tierra sola, apoya su voz en el dolor del mundo Eugenio Montejo
Di notte la vita ha frammenti di bellezza nascosti nelle voci suadenti delle foglie quando si staccano dai rami e lente planano sull’asfalto, sui sacchi d’immondizia.Da qui vedo il paese, in alto sulla destra lo stesso che ha scolpito questo cuore fitto d’oscure macchie e pietra grezza che cede alla polvere i petali della sua pigrizia. Il fischio vibrante delle canne è spronato dal vento che trascina con sé le tracce di fiumi asciutti, o in fiamme, di territori assetati e sconvolti in questi giorni. Ora mi lascio sfoltire dall’erba con gli occhi chiusi poto i ciliegi ma l’esodo dalle ferite è il frutto che ci afferra e alimenta la voglia di ripartire dall’inizio perché la bocca ha le sue aguzze spine a sigillare i ricordi, i fiori carnosi della savana.
La nuit la vie a des fragments de beauté cachés dans les voix enjôleuses des feuilles lorsqu’elles se détachent des branches et planent lentement sur l’asphalte, sur les sacs de poubelles.D’ici je vois le pays, en haut à droite le même qui a gravé ce cœur caillé de taches obscures et de pierre brute qui cède à la poussière les pétales de sa paresse. Le sifflet vibrant des roseaux est poussé par le vent qui traîne avec lui les traces des fleuves asséchés, ou en flammes, de territoires assoiffés ou bouleversés de ces jours. Maintenant je me laisse démarier par l’herbe les yeux clos je taille les cerisiers mais l’exode des blessures est le fruit qui nous captive et alimente l’envie de tout reprendre à zéro car la bouche a ses dards déchirants qui scellent les souvenirs, les fleurs charnues de la brousse.
(Traduzione di Viviane Ciampi, giugno 2009)
De noche la vida tiene fragmentos de belleza escondidos en las voces persuasivas de las hojas cuando se separan de las ramas y lentas van cayendo en el asfalto, sobre las bolsas de basura.Desde aquí veo el pueblo, en alto a la derecha el mismo que ha esculpido este corazón lleno de manchas oscuras y piedra bruta que delega al polvo los pétalos de su pereza. El silbido vibrante de las cañas lo estimula el viento, que arrastra consigo indicios de ríos resecos, o incendiados, de territorios sedientos y hoy día desgarrados. Ahora dejo que la hierba me expurgue con los ojos cerrados podo los cerezos pero lo que sale de las heridas es el fruto que nos aferra y alimenta las ganas de volver a empezar porque la boca tiene sus espinas agudas que clausuran los recuerdos, y carnosas flores de sabana
(Traduzione di Martha Canfield nell'antologia El el ojo del lobo)
Di più non posso sottrarmi alle tenebre, all’abisso nel mare chiuso in uno specchio e scalzo andare incontro al figlio con le mani assicurate a un fosso.Se potessi parlarti un giorno ti racconterei dei bisbigli d’ali del pappagallo chiuso in una gabbia messa in mostra in un salotto ingombro di sbadigli, delle doglie dopo il parto respinto dei toni aspri che scacciano la luce. Quello non era un sogno ma realtà spalmata nello sguardo con la camicia sudata e le scarpe sprofondate nel fango, i tacchi sbattuti sulle pietre consumate dal cammino e del suo esatto contrario. La nuvola che sorvola i giorni lesta arpiona i sogni con dolcezza porta via la pelle e i grani del rosario. Dà fuoco alla città e al bosco. Guarda: adesso persino il Tevere è in fiamme!
Mi rivolgo al caldo tropicale per il piacere che ho della luce con il tiepido sussurro emanato dal sordo che ascolta il sole la devozione del sarto che a occhi chiusi si cuce le labbra lo scuotimento dell’animale dalle zampe annodate al collo. Sulle spalle le spine delle rose, le schegge degli alberi, le pietre ancora calde di case e palazzi divorati dalle bombe.Uccelli della notte mettono il becco nella luna dei nostri occhi lasciano un segno d’ali leggere, di rientri in punta di piedi. Di ricordi vaporizzati dal sale di uomini dallo sguardo onesto del regolare fluire delle stagioni di nidi di grano e spighe di frutti di fiori di fumo che salgono dalla legna che arde del piacere del corpo rivestito con borchie di rame. Mi ritrovo uno scalpitio di puledri nel petto un passaggio di piume, una fuga di iene assassine.
Di notte fodero il buio con spessi strati di neve e immobile ascolto le cicale che da sempre ci respirano accanto o si nascondono nelle nostre vene.Così resisto ai colpi del tempo, addolorato ma non sconfitto mi fascio la fronte di spine, metto nei denti il veleno giusto. Nel flusso sciolto dal sogno c’è sangue dappertutto di madri e padri che in guerra hanno perso il figlio. Al rallentatore rivivo il viaggio dell’indeciso del pazzo ubriaco e trafitto da foglie di banano, platano o fico. A volte osservo ad occhi chiusi come avrei voluto che fosse il mondo e ascolto il triste scoppiettio del forno annuso e sfioro con le dita il pane bianco a lievitazione naturale i decenni spesi (e ormai persi) a farsi del male a scagliare parole di sconforto sulle navi in fuga d’Ulisse.
Dialogo tutto il giorno coi pesci tropicali dagli elettrici colori stando in ascolto delle stelle da rosicchiare in silenzio delle cicale rinchiuse in bolle d’aria che fanno tanta tenerezza.Le branchie slargate dal prossimo tuo odiato come te stessa. Risalgo in verticale afferro la superficie esplodo in cerca di un soffio, con te chiusa tra vetro e mare la faccia dilatata di osservatrice inquieta. Divido con gli squali di passaggio la tenera mollica, la crosta dorata l’uva matura di mio padre ma solo a te ho aperto un varco tra le canne in quel sogno di baci profondi poi fatto a pezzi dal grido del corvo. Ora se parlo qualcuno mi ascolta.
Questo stormire d’acqua non è un suono atavico come tu dici, ma la fontana di Trevi e sulle foglie dei platani disposti a croce non sta scritta la vita. Da lì non scendono gemme dorate ma punte di lance che si conficcano nella carne marcia dei pesci d’acqua dolce e nelle teste dei passanti: puoi vederli a lungo in ginocchio a raccogliere frammenti, ricomporre con scrupolo il puzzle della memoria, delle emozioni.Infatti lungo il Tevere oggi le auto in coda ardono l’aria le pallide cortecce dei platani, il volto ustionato e stanco delle città-mondo che alla svelta s’espandono senza freni. Questo stormire d’acqua è il pianto che piove dentro. Al padre vorrei dire ciò che sento portargli in dono non la rabbia per la terra maltrattata ma l’inutile scheletro per seppellirlo con questi versi in un’urna romana sotto il paese medievale dove sono cresciuto all’ombra della torre campanaria. Alla madre una semplice e docile preghiera di pietre taglienti che il tempo ha trasformato in pane. Essere costretti alla forca a mostrare il danno irreparabile. Così il sarto che a se stesso cuce gli occhi e più tardi, con destrezza, anche la bocca.
Grandinata di parole sparate dal silenzio strapazzato dai tubi di scarico delle auto dei bus lunghi una quaresima voluti dal sindaco ecologista. Da un pensiero antico nascosto tra foro d’Augusto e le torri le dighe di calcestruzzo di Tor Bella Monaca, del Prenestino.Buccia d’arancia la basilica di San Pietro con il papa tedesco a Istambul sceso nel fiume nella visione d’amore che abbraccia il nemico. Così capovolta è una barca la cupola va in fuga e lesta arriva all’altra sponda latina dove la chiesa cattolica ha indorato regimi di tortura.Colpito proprio in mezzo all’osso che ci sostiene assieme a ogni tipo di sospetto, coi lacci delle stelle attorcigliati al collo. E non dimentico nulla del giorno nemmeno al buio, o sotto tortura.
Un paio di labbra screpolate dal freddo fissano a lungo Roma murata dalle auto poi si stringono a sottile, oscena fessura cerniera di rame e d’acciaio, antiscasso punto esclamativo scoppiato in silenzio in combutta con l’odio che ancora perdura.La notte è un foglio bianco ricoperto di solchi profondi di terra grassa macinata lentamente da silenzi oceanici dove gli alberi del lungotevere organizzano una danza con i fili spinati che giungono dalla Palestina le tremule luci di Castel Sant’Angelo riflesse nell’acqua. Cola a sorpresa il sogno (dopo anni avviliti dall’oblio) di scucire le labbra e lanciare un grido affondare i denti avvelenati al collo gelido del tuo dio.
Agli occhi appenderò il sorriso e la rabbia non mi chiederò se dormo o son desto e la notte è solo un residuo di luce gialla o se questa gioia è il nostro umile concerto. Coi baci volevo spogliarti dal dolore e dall’esilio le mie dita legate al tuo corpo erano una grancassa la lingua lo svelto violino che scioglieva ogni dubbio.Senza gloria mi piego per raccogliere i granelli di polvere che ci conoscono. Verranno lune più dolci? altre pietre? ci sorrideranno fiumi più limpidi? terre da arare e difendere a denti stretti? Indosso le tue parole che un giorno mi avvolsero di nebbia luminosa. Ora che non ci sei ti mostrerò altre storie farò i conti con gli osti, i vivi e i morti, con il vento divino che strapazza le foglie incunea tra sole e luna lo sposo e la sposa.
a Eugenio Montejo, in memoria
La città eterna ci rovina addosso, non bastano le palafitte né il verde profumo della savana. Ai tropici fa freddo e a volte cade persino la neve. Sono stato sotto i ponti e ho visto le tenebre le croci, il fiume tagliato in due dall’oceano dei liquami il tatuaggio di nuvole sulla pelle strappata alle lucertole. Crolla addosso la pioggia di settembre i conflitti sul lavoro con le scimmie ammaestrate i pugni allo stomaco dati e ricevuti la manciata di chiodi che segnano il percorso gli alberi strappati alla terra, le menti telecomandate. La ripresa del sogno perso al volo, in salita bagna il becco nel nero delle strade nella calma dei buoi che trascinano le foglie dei platani, degli ulivi persino dei banani dove sta scritta la vita. I lampi sinistri del Tevere illuminano gli sfregi sul volto della Terra. Nel paesaggio saldo e assoluto delle rovine che ci rotolano addosso oggi trovo un canto e ti vengo incontro (se posso, se me lo permetti) negli occhi la luce sfibrata ma tenera di Roma sulle spalle le pietre del fiume. E questa voce che alla tua s’affianca.
giugno 2008
CON I NEON NEL CUORE
avevo bisogno del tuo sguardo d’occhi sempre aperti per confondermi le idee. perché aspettavo che il silenzio si adagiasse nell’antro del cuore (farfalla dalle ali stropicciate) e tu avresti dovuto abbatterlo nei pressi di fontana di Trevi dove ho vissuto i momenti più felici e quelli più duri, farciti con il fiele dell’esilio, con il soffio della tua esistenza, con il tuo corpo che avrebbe potuto accogliere il mio. ho provato, sai, a seguire il canto: il sordo rumore delle rose era assordante. i ricordi. le facce. i pensieri che sbattono nel cervello i piatti per delle ore. meglio, allora, lanciarsi dal ponte coi professori-poeti e i poeti di professione, io sto con gli sguatteri della poesia. tornare all’ombra tangibile, allo scarto di se stesso, alle menzogne sincere, al taglio della mano e carne, lingua e naso. alla verità impudica che sanguina persino sui manifesti pubblicitari. nel frattempo non trascurerò il giardino (mia tomba odorosa) e avrò sempre bisogno dello sguardo della tua forma che scroscia dalle altre mille immagini di Roma: a festa illuminata e persa dietro il fiume in fiamme, ai neon, al nido di lamiere, teli di plastica e cartoni dei rifugi dei derelitti. ai patinati e giganteschi oggetti (calze, orologi, auto, profumi...) reclamizzati da visi perfetti, da corpi ginnici abbronzati e ardenti. trovi la traccia persino nei volti dei passanti di questa malattia che, in effetti, non lascia scampo: ci cala dritti nel pozzo poi lentamente ci affonda (acre oblio del sonno) nelle sue morbide braccia.
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