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che cosa ho scritto

Antologia critica di Tevere in fiamme




da Fermenti, n. 235, anno XXXIX, maggio 2010, di Germana Duca Ruggeri

dal sito Fabruaria, 3 gennaio 2010, di Anna Elisa De Gregorio, (l'originale è qui)

da L'Albatros, n. 4, ottobre-dicembre 2009, di Marco Testi

da Avanti!, 9 ottobre 2009, di Alberto Toni

dal sito Orvietonews.it, 11 settembre 2009, di Oscar Palamenga, (l'originale è qui)

da La Voce di Mantova, 9 aprile 2009, di Alberto Cappi

dal sito Fili d'aquilone, n. 13 (gen/mar 2009), di Alberto Casadei, (l'originale è qui)

dal sito Vico Acitillo 124 - Poetry Wave, 25 gennaio 2009, di Raffaele Piazza, (l'originale è qui)




dal mensile Fermenti, anno XXXIX, maggio 2010, di Germana Duca Ruggeri     (inizio)

Alessandro Brandolini, Tevere in fiamme

Poesia di natura lavica, come l’ossatura dei colli laziali, circola nelle pagine (poco più di cinquanta) di Tevere in fiamme, opera sesta di Alessio Brandolini, fresco vincitore del Premio Sandro Penna. Ma il libro si può pure sfogliare come poema di cieli e acque diverse, di confluenze ossimoriche, considerato il percorso del poeta romano, nativo di Frascati, ora sulla soglia della maturità, non solo anagrafica. Egli, dall’esordio con L’alba a Piazza Navona (1992, Premio Montale per l’inedito) sino alla creazione della rivista web Fili di aquilone, ha rivelato un talento originale che, senza nulla togliere alla sua indole orientata al sogno e all’introspezione, gli ha permesso di mettere a confronto linguaggi diversi, offrire e accogliere collaborazioni, dare concretezza alle idee, uscendo dai cànoni, – “io sto con gli sguatteri della poesia” –, entrando da servitore della scrittura nelle opere dei contemporanei.
A riguardo l’autore non tace la sua dedizione alla letteratura ispano-americana, in particolare al venezuelano Eugenio Montejo (1938-2008), ‘appris par coeur’, verso dopo verso, leggendone l’opera antologica (La lenta luce del Tropico, Le Lettere, 2006; a cura di Martha Canfield). Tevere in fiamme muove da lì, fin dal frontespizio, “La poesia cruza la tierra sola / apoya su voz en el dolor del mundo”, prestito del poeta di Caracas. A lui, al dialogo serrato con i temi della sua poesia, Alessio Brandolini dedica venti testi corposi e leggeri come stelle (è l’asterisco, non a caso, a fungere da titolo), conclusi dal canto in memoria datato giugno 2008:

    I lampi sinistri del Tevere illuminano gli sfregi sul volto della terra.
    Nel paesaggio saldo e assoluto delle rovine che ci rotolano addosso
    oggi trovo un canto e ti vengo incontro (se posso, se me lo permetti)
    negli occhi la luce sfibrata ma tenera di Roma
    sulle spalle le pietre del fiume. E questa voce che alla tua s’affianca.

La prossimità a Montejo si manifesta anche in fondo al libro, nel disegno a china, Passaggi, di Stefano Cardinali, che depone lungo le anse del Tevere visioni di Roma e Caracas, fra arte e natura sapientemente mescolate. Quasi a riepilogo dell’identificazione filiale di Alessio col poeta scomparso, col suo lessico di base (bastino “savana”, “tropico”, “neve”, “nuvola”…), in piena sintonia di sentimenti, entro smarrimenti e talora stupefazioni:

    La nuvola che sorvola i giorni lesta arpiona i sogni
    con dolcezza porta via la pelle e i grani del rosario.

    Dà fuoco alla città e al bosco. Guarda:
    adesso persino il Tevere è in fiamme!

Una volta iniziato il cammino nel tempo e nello spazio – “Di notte la vita ha frammenti di bellezza / nascosti nelle voci suadenti delle foglie / quando si staccano dai rami e lente / planano sull’asfalto, sui sacchi d’immondizia. // Da qui vedo il paese, in alto sulla destra / lo stesso che ha scolpito questo cuore / fitto d’oscure macchie e pietra grezza / che cede alla polvere i petali della sua pigrizia.” –, Alessio Brandolini, che ne Il male inconsapevole (2005) faceva a brandelli se stesso e gli altri, si muta nel sarto che si cuce gli occhi e la bocca, nel contadino che pota a occhi chiusi il ciliegio, nel custode del campo paterno; dialoga coi pesci tropicali, ascolta le stelle e le cicale, ama.
L’inquietudine però rimane, magari riflessa nei versi ipermetri, nello stile poco incline alla sintesi, con immagini allucinate, o violente, a specchio di analoghi stati psicologici o del mondo reale: “Così resisto ai colpi del tempo, addolorato ma non sconfitto / mi fascio la fronte di spine, metto nei denti il veleno giusto. Nel flusso sciolto dal sogno c’è sangue dappertutto”.

Nella seconda sezione del libro, Zattere d’acqua (dal titolo dell’ultimo dei sette testi prosimetri che la compongono) il paesaggio metropolitano diviene fondale di consapevolezze amare e meno amare, individuali e collettive. Ecco allora il sogno d’amore infranto “nello stagno urbano dove persino il pesciolino rosso, in origine il più tranquillo, fa di tutto – ingurgita vitamine, va in palestra, dimentica figli e genitori, – per trasformarsi in un possente squalo.”; o la constatazione che “non possiamo bruciarci l’anima, il cuore, le dita per poi spalancare le porte al Nulla”. Specie se ci è dato di vedere la bellezza delle vite nuove: “mi snodo solamente se osservo (con rapita attenzione) le mani dei figli, i titubanti ma generosi sguardi e il mondo si tiene nei loro sorrisi, ormeggia nei loro occhi.”.
Come non scorgere, nell’insieme della raccolta, la poesia in un tempo senza poesia indagata da Montejo? Come non udire, passando dalle fiamme alle zattere d’acqua, e viceversa, l’eco di una morale che permette di gustare la serenità anche entro i limiti della condizione umana?




dal sito Fabruaria, 3 gennaio 2010, di Anna Elisa De Gregorio     (inizio)

Alessio Brandolini, Tevere in fiamme

Conosco per la prima volta il poeta romano Alessio Brandolini a Città della Pieve nell’ottobre 2009, in occasione del premio “Sandro Penna 2009”, che lo consacra vincitore con il libro Tevere in Fiamme (la sua quinta “prova scritta”) che fa seguito alla raccolta Mappe colombiane (LietoColle, 2007). Nell’occasione ascolto la tranquilla voce, appropriata al momento agiografico, mentre parla dei suoi interessi per la letteratura ispanoamericana e di Fili d’aquilone, rivista web di “immagini, idee e Poesia” che ha ideato e dirige dal gennaio 2006 (e a proposito di questa rivista Elio Pecora lo ringrazia pubblicamente, perché oltre a scrivere poesia Brandolini divulga e incoraggia la poesia degli altri). Seguo Brandolini mentre legge i suoi lunghi versi con viso severo, concentrato, lo sguardo profetico ma ben presente al reale.
Dopo aver letto il libro mi tornano alla mente queste prime impressioni e trovo una perfetta rispondenza con le sue poesie, le stesse ombre e trasparenze: Tevere in fiamme è una silloge sui diversi fuochi dell’oggi, sulla malaria di Roma che ammala e ammalia, sulla marea delle immagini effimere e volgari che ci investono. Le poesie non hanno titolo (tranne nell’ultima, breve sezione intitolata “Zattere d’acqua”), sono capitoli di una medesima storia, dello stesso largo e intenso poema, segnalati solo con un semplice asterisco.
Versi per niente consolatori, espressi in un ritmo prosastico e percussivo, di respiro largo, che a volte tracima oltre la riga.
Versi che poco concedono al lirico, eppure sempre struggenti per lo strazio della bellezza calpestata, per la terra che soffre, per le guerre e i mali sociali.
Incanti e disincanti. Ogni componimento poetico (uso la parola componimento per la densità, per l’intensità dei concetti, vicini a volte alla poesia civile di grande tradizione, da Dante a Pasolini), ci riporta una Roma contraddittoria, maledetta e tenera (per via del flusso dolce e arcaico del Tevere), spaventata e in crisi, e sicuramente molto amata. La poesia d’esordio è quasi un manifesto dei molti temi che verranno toccati, via via, nella sezione eponima “Tevere in Fiamme”:

    Di notte la vita ha frammenti di bellezza
    nascosti nelle voci suadenti delle foglie
    quando si staccano dai rami e lente
    planano sull’asfalto, sui sacchi d’immondizia.

La città (il centro e la periferia), pur soggetta ad ogni tipo di violenza (traffico, smog, rumori, cinismo...), riesce a proteggere isole di purezza, a trattenere ricordi di infanzia: “Da qui vedo il paese, in alto sulla destra/ lo stesso che ha scolpito questo cuore/ fitto d’oscure macchie e terra grezza/ che cede alla polvere i petali della sua pigrizia”. Il desiderio di abbandonarsi alla natura prima di perdersi : “perché la bocca ha le sue aguzze spine/a sigillare i ricordi, i fiori carnosi della savana”. Questi inconsueti fiori (anche in altre poesie troviamo lampi di paesaggi esotici) ci riportano subito all’esergo e alla dichiarata “paternità” di Eugenio Montejo da parte di Brandolini: “La poesia cruza la tierra sola,/ apoya su voz en el dolor del mundo”. Il grande poeta venezuelano, deceduto nel giugno del 2008, è l’invisibile Virgilio che lo accompagna in questi percorsi dell’esistenza e al quale poeta romano rende omaggio dedicandogli esplicitamente l’ultima poesia della sezione, come l’epistola di un figlio a un padre:

    I lampi sinistri del Tevere illuminano gli sfregi sul volto della Terra.
    Nel paesaggio saldo e assoluto delle rovine che ci rotolano addosso
    oggi trovo un canto e ti vengo incontro (se posso, se me lo permetti)
    negli occhi la luce sfibrata ma tenera di Roma
    sulle spalle le pietre del fiume. E questa voce che alla tua s’affianca.

Bellissimi, ultimi versi del poeta Brandolini che si affida, quasi si appoggia, all’ombra (alla voce) del maestro sudamericano che questi versi aveva letto quando furono pubblicati la prima volta su Fili d’aquilone nel marzo 2007 (“Tevere in fiamme: 20 asterischi per Eugenio Montejo”).
Nell’ultima sezione “Zattere d’acqua”, l’ossimoro del titolo, assai avvincente, ci lascia perplessi davanti ad una improbabile salvezza su una zattera fatta di acqua, ma s’intravede anche possibilità di salvezza se la zattera riprende il suo consueto spessore e viene appoggiata sull’acqua e poi scorre, si allontana velocemente dalle fiamme e procede verso il mare, verso il Mediterraneo.
Dispiegata poesia, o prosa essenziale e intensamente poetica, poco importa, dove il punto (segno di interpunzione che di solito taglia, chiude con il discorso di prima) diventa un “segno insignificante”, consente al poeta la lettera minuscola (mi riferisco all’ultimo brano con lo stesso titolo della sezione) per un flusso ininterrotto di pensiero e di sensazioni che si fa lava, magma incandescente. A tratti appare l’eventualità di un ormeggio (nell’amore, nel paese, nell’infanzia, nei ricordi, nella poesia...) che però ben presto “si trasforma in un pugno di sabbia”.
Il poeta ha la forza e l’ostinazione di arrivare al fondo della sua esperienza, di concedersi totalmente come l’eroe che muore solo, ad ogni minima sfaccettatura d’universo. Parole dure, senza interrogativi: forse la poesia è l’esercizio insensato del remare anche quando il remo è bloccato dalla melma, dal sale e dalla polvere. Sarebbe più saggio, allora, prendere lezione dai pesci colorati che si lasciano portare dall’acqua: “forse poi per questo le cose accadono/ all’improvviso proprio quando nulla succede./ ti si avventano alle spalle. non ti lasciano scampo”. E sono gli ultimi versi del libro, di questo Tevere in fiamme.
Vorrei soffermarmi un momento sul disegno a china, che sta a suggello del volume, dal titolo Passaggi di Stefano Cardinali: il bianco e il nero evocano i colori assoluti della poesia di Brandolini e la stringa sinuosa bianca che simboleggia il Tevere taglia tutta l’opera (con i luoghi simbolici dell’autore) e si fa serpente d’acqua che s’insinua nella storia personale e collettiva, nei ruderi della città eterna, “filo d’aquilone” che s’innalza verso l’alto: simbolo di speranza e di coraggio.


SULLE FIAMME

la scrittura sconfessa le parole e gela il fuoco. piega il foglio in quattro per essere imbucato e partire per una destinazione sconosciuta. stare nel sacco aviotrasportato come in una maschera bianca. non mi aspettavo molto, però da te ho avuto in dono la giusta incomprensione e qualche robusto schiaffo.

il sorriso sbieco dei figli, lo sguardo da muro a secco, le piante appassite per via dell’aria inquinata. non ero venuto per dirti addio ma, visto che ci sono, subito ne approfitto. passavo per caso, come inseguendo un gioco di cani o canti senza fiato, per sfuggire al torpore, al tempo che ringhia al sole e alla luna.

raccogliamo per decenni le gocce distillate dagli amori per ritrovarci a tracciare gli errori d’una vita spalancata alla morte, ai pensieri (azioni) di genitori intravisti nell’ombra. per questo le torture del giorno sono scherzi innocenti: non possiamo bruciarci l’anima, il cuore, le dita per poi spalancare le porte al Nulla.

    A forza di pensarti da qui non posso
    non vederti nuda e ossessiva
    nemmeno sognarti, come non dovrei
    non varrebbe la pena visto che hai
    gli occhi crudeli, affogati nell’odio.

    Sai che i palazzi riscrivono le storie
    si caricano il passato sulle spalle,
    dal fondo del fiume
    estraggono ghiaia, calce e mattoni
    annaffiano strade che non crescono.




dalla rivista L'Albatros, trimestrale culturale diretto da Agostino Bagnato, n. 4, ottobre-dicembre 2009, di Marco Testi     (inizio)

QUANDO IL TEVERE BRUCIA

Che cosa c’entra il Tevere con le derive d’occidente, a parte il suo essere fiume-simbolo dell’ovest planetario? C’entra proprio grazie a questo a-parte, a questo suo rappresentare simbolicamente il vecchio occidente. Alessio Brandolini, romano d’azione, ma nato nei luoghi del Latium vetus dai quali è germinata l’Urbe, si interroga ancora una volta su Roma nella sua ultima raccolta, Tevere in fiamme (Azimut, 2008), edita da un editore molto attento ai fermenti culturali di quest’area.
Il lettore si rassicuri: non stiamo di fronte alla meraviglia per le bellezze turistiche della città, né in questo libro si sentono schitarrate e falsetti dialettali in sottofondo. Nulla di tutto questo. Perché l’eco di fondo che rimane dopo la prima lettura delle poesie è che davvero di deriva si parla qui, e non solo e non tanto figurata.
Già la presenza dell’amnios, padre della Città, è enunciata dalla copertina, iconograficamente e lessicalmente, tanto per chiarire. L’acqua, dunque, e che acqua: il liquido che ha reso possibile la fioritura della città-destino. Sono passati duemilaottocento anni, e duemilaottocento anni dopo uno scrittore si interroga in versi (esistevano già, e guarda caso non rimati, già allora) sul destino di quel fiume, e di quella città, di quegli uomini che continuano a percorrere le altre arterie, non equoree stavolta, ma d’asfalto, dopo essere state di basalto.
Brandolini non è molto tenero con la città di duemilaottocento anni, ma nello stesso tempo non riesce a “lasciarla”, anche quando scrive prosa, come nel caso del racconto Fumo a piazza dei Mirti (in Roma per le strade, Azimut, 2007). Il fatto è che il poeta mostra nel corpo vivo della lirica di amare forse solo per questo i luoghi di uno spazio un tempo sacro.
Da Belli a Pasolini la poesia di e su Roma ha avuto questa componente “greca” se la si riferisce al dono ambiguo dell’ananke. Non emerge da Tevere in fiamme un vero e proprio amor fati, che sottintenderebbe un cupo pessimismo della storia, mentre Brandolini è un uomo lucidamente abbarbicato ad una concezione positiva del fare storia da parte degli uomini. Deriva è ancora la parola giusta per capire profondamente il punto centrale di queste poesie (ma forse sarebbe meglio usare il singolare per la natura unitaria di questa raccolta): deriva si ha quando il mezzo non risponde più alle nostre sollecitazioni, e si perde il contatto con la terraferma. Ci si perde, a volte, non si torna, o se si torna non si è più gli stessi. Al Rimbaud del Battello ebbro non restavano che il sud del mondo e il fucile. Ma c’è pure chi ha rasentato il di là ed è tornato a raccontare, come il Lazzaro di Eliot. E c’è chi, come il nostro, che è dentro, e quindi può dire e non dire, può osservare, ma dal di dentro, con tutti i rischi di deformazione prospettica di cui narratologia e principio di indeterminazione chi hanno raccontato e spiegato.
Se il fiume è in fiamme, il poeta ci sta navigando. Che cosa brucia esattamente nel fiume? Parecchie cose, ma soprattutto la società auto-rappresentativa dei politici, e quella dei colti e dei salotti letterari. Ecco la deriva: Brandolini sta “narrando” il momento degli addii (come si sa quelli in spirito sono più dolorosi di quelli fisici) a tutto questo.

      (...) meglio, allora, lanciarsi dal ponte
      coi professori-poeti e i poeti di professione, io sto con gli sguatteri
      della poesia. tornare all’ombra tangibile, allo scarto di se stesso,
      alle menzogne sincere, al tagli della mano e carne, lingua e naso.
      alla verità impudica che sanguina persino sui manifesti pubblicitari.

      (pag. 47)

È, come si vede, una sorta di elogio dell’ombra: l’impero sta cadendo, i neobarbari dilagano, ritiriamoci nell’abbraccio con la semplicità.
La semplicità rappresenta per Brandolini l’altro punto di riferimento costante in tutte le sue opere. E semplicità è per lui la Tellus latina, la madre che chiama attraverso stavolta la figura paterna. Il padre-contadino rappresenta l’altra parte del sé, l’ombra, il pungolo del dubbio, che ci mette costantemente sulla soglia di casa pronti a lasciare tutto, comprese le comodità “borghesi” per tornare. Il padre-contadino che richiama il silenzio originario della terra è, oltretutto, protagonista di una parte della precedente poetica brandoliniana. Ecco perché non si può parlare per queste poesie di amor fati. Al poeta autoreferenziale, all’inautenticità di chi bazzica i salotti culturali, al tedio del vuoto non nascosto dalle parole c’è riparo. Come in Notti a ritroso di Bichelberger (e come in alcuni personaggi tolstoiani) il riparo è il ritorno, l’immersione alle fonti, il nuovo battesimo di terra ed acqua.
Se il Tevere è in fiamme, allora è il momento di fare delle scelte, e non solo in poesia. Tutto facile, allora: uno è nauseato dalla non-vita, fa armi e bagagli e se ne torna in campagna. Se uno la pensa così allora vada a leggersi una di queste poesie:

      Nutrirsi d’aghi di pino e scaglie di sale che salvano le mappe
      colombiane. Entrare adagio ma forte e a lungo nel tuo corpo.
      Pensaci bene: non startene chiuso altri tre decenni nel ghetto
      medievale del paese. In fondo sei un figlio e padre dignitoso.

      A volte da bambino, dopo il lavoro, giocavi persino a carte.
      (pag. 22)

Non è facile abbandonare l’occidente della città, perché nasconde i “frammenti di bellezza” di cui parla il primo verso della raccolta. Ora – per Brandolini come per molti altri – la bellezza non è solo una forma fine a se stessa, ma l’immagine di una sottile corrispondenza che manda inquietanti bagliori dal sottosuolo metaforico di una città che brucia lentamente. In questa continua contraddizione tra il “fare le valige” e il rimanere risiede la singolarità e il fascino di Tevere in fiamme.




da Avanti! (rubrica Arcipelagolibri), 9 ottobre 2009, di Alberto Toni     (inizio)

Tevere in fiamme, l’ultima raccolta di Alessio Brandolini (Azimut 2008, 60 pagine, 8 euro), “è un intenso e teso dialogo con Roma, con se stesso e con la poesia”. Negli occhi del poeta “la luce sfibrata” della città apre immagini di una quotidianità attraversata da molte cose: la vita familiare, i viaggi e le memorie, i poeti letti e amati, come il venezuelano Montejo, a cui l’autore dedica una bella pagina.
Roma diventa così il filtro di un sentimento più vasto: dentro i suoi paesaggi combusti si muovono atmosfere lontane, esotiche, luoghi che diventano riflessioni generali, atti di accusa: “I lampi sinistri del Tevere illuminano gli sfregi sul volto della terra”.
Una poesia delle origini e dell’oggi, una voce “jazzistica”, alti e bassi per conservarsi tra mille insidie.




dal sito Orvietonews.it, rivista d'immagini, idee e Poesia, n. 13 (gen/mar 2009), di Oscar Palamenga     (inizio)

La fiamma e la cenere. Riflessioni sull'ultima raccolta poetica di Alessio Brandolini "Tevere in fiamme"

Leggendo con attenzione l'ultimo lavoro di poesia di Alessio Brandolini non possiamo fare a meno di notare l'assoluta discontinuità con le precedenti raccolte. La voglia di rinnovarsi stilisticamente e nei contenuti conduce il poeta ad addentrarsi in percorsi sempre nuovi che, se da una parte spiazzano i lettori abituali, dall'altra stimolano ad ampliare gli orizzonti e le prospettive della ricerca poetica. L'unica costante dell'e ultime opere di Brandolini, da Poesie della terra (2004) a Mappe colombiane (2007), finanche alle sue composizioni in prosa, è l'impegno sociale. La coerenza etica e civile, di matrice pasoliniana, sembra essere l'unico elemento comune che cuce e salda i vari testi. La poesia Largo Preneste, tratta da Il male inconsapevole (2005), o la novella Fumo a piazza dei Mirti, tratta dalla raccolta Roma per le strade (2007), portano direttamente al mondo letterario (ma anche cinematografico, basti pensare ad Accattone) di Pier Paolo Pasolini, quello delle borgate romane, della povertà e della fame, del disagio e del dolore, della distruzione e dell'annientamento che può precedere la rinascita.

Così anche l'ultimo libro di poesia, Tevere in fiamme (Azimut, 2008), rievoca nella forma e, in parte, nelle tematiche, il mondo poetico pasoliniano. Addirittura il titolo sembra complementare a quelle Ceneri di Gramsci, capolavoro poetico di Pasolini, che a metà degli anni cinquanta sconvolse il mondo letterario italiano. La fiamma e la cenere sono metafora di purificazione, di disintegrazione che anticipa il risveglio, di nuova vita, di ossimoro vivente che si incarna nella città eterna.

Se Pasolini utilizzava una lieve trama per inserire elementi autobiografici, riflessioni politiche e ideologiche, descrizioni fortemente pittoriche del paesaggio periferico romano (le zone abitate dal sottoproletariato urbano che per lui era ancora genuino e non corrotto dal capitalismo e dalle sue mode), Brandolini utilizza la sua voce jazzistica per melodie impreviste e sincopate che tracciano percorsi lacustri e/o "in fiamme", panorami urbani e campestri che si fondono nella memoria collettiva. Il poeta romano tesse un intenso dialogo con se stesso, con la poesia (personale e quella del poeta venezuelano Eugenio Montejo) e - soprattutto - con Roma e, a ritroso nella memoria, con le proprie origini familiari (nonni, genitori, fratelli, figli...), i Castelli romani, il paese medievale (Monte Còmpatri) dove l'autore ha vissuto i primi vent'anni.

Probabilmente Brandolini è più ottimista del suo modello, più convinto della funzione riparatrice della poesia, della sua "follia non infetta, / né falsa e inquinata". Così Roma e il suo fiume in fiamme (già Il male inconsapevole conteneva un testo intitolato "Acqua in fiamme") si trasformano in sottile metafora esistenziale, ossimoro vivente di una civiltà che da un lato mostra la sua opulenza, la sua forza consumistica, dall'altro nasconde sotto il tappeto i suoi mali e le sue fragilità, gli emarginati e i sofferenti, i vuoti di conoscenza e di memoria. Non a caso i continui riferimenti ai cartelloni pubblicitari che esaltano l'immagine patinata, il bello artificiale, l'effimero e il superfluo, e nascondono i palazzi rinascimentali, le piazze barocche, le antiche vestigia romane: la Storia antica e recente.

Se dal caos primordiale si genera la scintilla della vita, il fuoco è energia generatrice, mai solo distruttrice:

    (...)
    Farsi audaci e camminare a naso, in punta di piedi
    sulla lava in sosta sotto il fiume e quella indurita
    dai millenni che ha dato il profilo ai Castelli
    romani, ai colli ricoperti di boschi e vigneti
    all'azzurro incavato dei laghi d'Albano e di Nemi.

    (pag. 14)

Il mondo si rigenera dal fuoco e con il fuoco, il fiume Tevere sta alle fiamme come l'Eros sta al Tanatos, l'amore passionale alla morte. Ovviamente c'è uno slittamento al fantastico e al surreale quando il poeta si rende conto che il suo denso e incandescente fluire poetico contrasta con la fredda realtà: c'è il bisogno e la voglia di cambiare le cose, di riparare ai torti, di sedare i conflitti, di spostare confini e sponde, di "farsi audaci" per non lasciarsi annientare dalla distanza, dall'abisso tra utopia e realtà:

    (...)
    A volte osservo ad occhi chiusi come avrei
    voluto che fosse il mondo
    e ascolto il triste scoppiettio del forno
    annuso e sfioro con le dita il pane
    bianco a lievitazione naturale
    i decenni spesi (e ormai persi) a farsi del male
    a scagliare parole di sconforto sulle navi in fuga d'Ulisse.

    (pag. 17)
Oppure, sempre sul dualismo eros-tanatos:
    (...)
    Non voglio seppellirmi in fretta
    anche lo stomaco richiede la sua parte
    di stelle e animali che gracchiano nel cervello.
    È la solita storia, dirai, farsi a pezzi con un'accetta
    per poi rinascere fusto possente nel bianco della neve.

    (...)
    (pag. 22)

Ecco, distruggersi per poi rinascere nel bianco della neve, nel bianco del pane a lievitazione naturale, risorgere dalle ceneri così come auspicava Pasolini di fronte alla tomba di Antonio Gramsci: "Lì tu stai, bandito e con dura eleganza / non cattolica, elencato tra estranei / morti: Le ceneri di Gramsci... Tra / speranza / e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato / per caso in questa magra serra, innanzi / alla tua tomba, al tuo spirito restato / quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa / di diverso, forse, di più estasiato / e anche di più umile, ebbra simbiosi / d'adolescente di sesso con morte...)".
Gramsci per Pasolini è il vessillo della speranza e della lotta, il faro a cui rivolgersi per uscire dal guado, dalla delusione. Se c'è una sostanziale differenza tra le tematiche pasoliniane e brandoliniane, sta proprio nel fare riferimento a un punto concreto ed esterno a se stesso nell'autore friulano; mentre in Brandolini il punto di riferimento resta sempre all'interno di se stessi, nascosto nei meandri della psiche, dell'anima, nella fitta foresta interiore che va esplorata senza sosta, in solitudine sì, e con sofferenza, ma con l'aiuto (la guida) della poesia:

    Nel paesaggio saldo e assoluto delle rovine che ci rotolano addosso
    oggi trovo un canto e ti vengo incontro (se posso, se me lo permetti)
    negli occhi la luce sfibrata e tenera di Roma
    sulle spalle le pietre del fiume. E questa voce che alla tua s'affianca.
(seguono Cinque poesie da "Tevere in fiamme")




da La Voce di Mantova (rubrica "La biblioteca di Writer"), 9 aprile 2009, di Alberto Cappi     (inizio)

Si accende un fuoco testuale. È Tevere in fiamme, nelle Edizioni Azimut, di Alessio Brandolini. Sono segni di tracciati del vivere, carte che segnano una fluida geometria insieme precisa e fantastica. Qui si percorrono le mappe albali della civiltà e il dolore che segmenta l’esistere mentre la descrizione attinge al ricordo. In ricca polifonia nasce e si dispiega la visione, come la sillaba, si trovano quotidiano e storia, si accende i dialogo con Roma e con l’io autoriale: “Agli occhi appenderò la rabbia / non mi chiederò se dormo o son desto”.




dal sito Fili d'aquilone, rivista d'immagini, idee e Poesia, n. 13 (gen/mar 2009), di Alberto Casadei     (inizio)

Alessio Brandolini: Tevere in fiamme

Con Tevere in fiamme (Azimut, 2008) Alessio Brandolini giunge alla sua sesta raccolta, dove si accentua la componente visionaria e fantastica, ma a partire da una base concretissima (e anzi addirittura ‘politica’), già presente in molti testi precedenti. Si potrebbe parlare di realismo magico o di real-meraviglioso, riprendendo la nota formula applicata alla letteratura sudamericana così cara all’autore. In effetti, lo slittamento di tipo fantastico-surreale è ben presente in quasi tutti i componimenti, caratterizzati da un’effusività e da una fluenza da discorso ininterrotto; tuttavia, quasi sempre il fluire poetico nasce da un innesco (come direbbero i neurobiologi e i linguisti) decisamente contingente, come quando l’io si accorge di aspetti della realtà più banale che però sembrano distruggere la sua coerenza di persona (si veda, a titolo di esempio, Grandinata di parole sparate dal silenzio).
La visionarietà nasce insomma da un intenso bisogno di cambiare limiti e confini, di esprimere potenzialità interiori che viceversa tendono a essere represse: sintomatica una delle poesie migliori dell’intera raccolta, Di più non posso / sottrarmi alle tenebre..., che appunto si conclude con la scena che offre lo spunto per il titolo generale:

      (…)
      Quello non era un sogno
      ma realtà spalmata nello sguardo
      con la camicia sudata e le scarpe
      sprofondate nel fango, i tacchi
      sbattuti sulle pietre consumate
      dal cammino e dal suo esatto contrario.
      La nuvola che sorvola i giorni lesta arpiona i sogni
      con dolcezza porta via la pelle e i grani del rosario.

         Dà fuoco alla città e al bosco. Guarda:
         adesso persino il Tevere è in fiamme!

Si possono quindi seguire vie non battute, si possono sognare eventi che cambino il corso di una vita e di un intero periodo storico.
Forse proprio questo Brandolini coglie nella poesia sudamericana, da lui anche tradotta con passione (basti pensare alla recente edizione di Sordomuta dell’argentino Jorge Boccanera, pubblicata da LietoColle nel 2008, e vincitrice del “Premio Camaiore”). La tendenza a superare i confini precostituiti è evidente, e fornisce anche spunti alla configurazione ritmica dei componimenti, in alcuni casi decisamente variegata (quasi jazzistica) come in Svelta cala la notte: scimitarra... o in La città eterna ci rovina addosso, non bastano le palafitte..., dedicata alla memoria del poeta venezuelano Eugenio Montejo, recentemente scomparso.

Si arriva all’intersezione con la prosa nella seconda e conclusiva sezione della raccolta, Zattere d’acqua, in cui echeggiano ancora ricordi di temi cari agli autori sudamericani (l’incipit del testo eponimo, per esempio, sembra riprendere spunti di un João Guimarães Rosa), con una ancor più accentuata tensione verso l’estremo, come in Notte illuminata a giorno. Ma interessanti risultati sono raggiunti anche quando gli squilibri tendono a smorzarsi, e la rievocazione si arricchisce di toni quasi colloquiali, come nella validissima Ci provo da sveglio.


CI PROVO DA SVEGLIO

1.

               ... hai gli occhi imbrattati di un rosso
vaporoso. alchimia del pensiero e dello sguardo che scorre sulla pelle dei polpacci. distratto e profuso alla fine di settembre: eravamo in tanti per questo non hai salutato nessuno. taglio la lingua in quattro per vedere se fiorisce nuova-mente. mi ricordavo dell’azzurro di piazza Farnese, delle luci disseminate sui manifesti, e di un me seduto, afflitto, a scrivere dei versi dedicati a via del pellegrino. ho prenotato un posto all’inferno: ci andrò da solo e tornerò quando ne avrò voglia. tanto non sei più calda come una volta e poi hai perso del tutto il senso del miraggio. la dolcezza s’è come dissolta nell’acido delle tue asprezze. ho faticato a comprenderti a fondo, a metterti a fuoco, a raschiarmi di dosso i baci molli, le torve carezze. la prima volta accadde quando prendesti a sbattere mani e piedi come una pazza. e poi la testa a martello: sulle zone più delicate del corpo, della mia incredula faccia.

      Mi avvicino e ti parlo
      come a un bambino
      sconosciuto di sei anni.
      Hai gli occhi imperlati
      di sudore e in bocca
      una manciata di spine.

2.

Ora sto faticando ad aggiustare un sogno onesto
ci provo da sveglio, però mi sento come quando
uno si solleva di scatto dal letto e non riconosce la stanza dove dorme. né le proprie mani e allo specchio il proprio volto. allora prende a balbettare a se stesso qualcosa d’incoerente. sogna grappoli d’uva e di neve, un tavolo con il pane appena sfornato, gli ulivi nell’orto-giardino sotto il paese.
non ha più paura d’ascoltarsi, né di uscire a tormentare il Tevere, le cupole, i palazzi, i platani, la linea blu dei Castelli romani davanti al faro tricolore del Gianicolo. prova a sentirsi nel paesaggio urbano, negli strati di lava sotto il fiume. non sa nemmeno s’è morto o vivo. per questo le sue parole vagano di verso in verso:
ordigni poetici che esplodono
nell’acqua troppo cheta del pensiero.

      d’accordo, ora la smetto.
      sì, proverò a dormire
      un paio d’ore da sveglio.
      ok. vediamo se funziona ...


Questa recensione è uscita in contemporanea sul sito culturale "il sottoscritto", con il titolo "Lo slittamento fantastico".




dal sito Vico Acitillo 124 - Poetry Wave, 25 gennaio 2009, di Raffaele Piazza     (inizio)

Alessio Brandolini: Tevere in fiamme

Le poesie di Tevere in fiamme (Azimut, Roma, 2008, pagg. 63) sono percorsi dell’esistenza, mappe lacustri, fluviali, marine (oltre al Tevere, il Circeo, e i laghi laziali), fin su per i Colli Albani. Una voce jazzistica vibra in forma sinuosa, entra nella vita di ogni giorno, nelle origini della nostra civiltà greco-romana e nel dolore che attraversa il mondo. Una geografia dove il paesaggio si fonde alla memoria –personale e collettiva – e a questo Tevere dantesco. I versi percussivi di Alessio Brandolini incitano a proseguire, a non adagiarsi, adeguarsi, ad affrontare il viaggio, i ruderi della storia e gli aspri conflitti d’inizio millennio. Tevere in fiamme è un intenso e teso dialogo con Roma, con se stesso e con la poesia (la propria e di altri, come quella del venezuelano Eugenio Montejo), è un flusso poetico di vibranti e incandescenti visioni. Il libro, oltre a comprendere la sezione eponima Tevere in fiamme, racchiude anche un’altra parte intitolata Zattere d’acqua.
C’è da notare che la prima poesia (senza titolo come tutte quelle di Tevere in fiamme), ha un tono programmatico e racchiude tutte le tematiche di questo libro. Nel componimento incontriamo una natura rarefatta e interiorizzata, contaminata con l’io poetante: del resto la natura gioca un ruolo importante nella raccolta, nella quale vengono nominate molte specie vegetali e animali:

    Di notte la vita ha frammenti di bellezza
    nascosti nelle voci suadenti delle foglie
    quando si staccano dai rami e lente
    planano sull’asfalto, sui sacchi di’immondizia.

    Da qui vedo il paese, in alto sulla destra
    lo stesso che ha scolpito questo cuore
    fitto d’oscure macchie e pietra grezza
    che cede alla polvere i petali della sua pigrizia.

    Il fischio vibrante delle canne è spronato
    dal vento che trascina con sé le tracce
    di fiumi asciutti, o in fiamme,
    di territori assetati e sconvolti in questi giorni.

    Ora mi lascio sfoltire dall’erba
    con gli occhi chiusi poto i ciliegi
    ma l’esodo dalle ferite è il frutto che ci afferra
    e alimenta la voglia di ricominciare dall’inizio
    perché la bocca ha le sue aguzze spine
    a sigillare i ricordi, i fiori carnosi della savana.

Ovviamente il paese che viene detto è Roma, città importante per il poeta, al punto da scolpirsi nel suo cuore. C’è un chiaro pensiero ai territori sconvolti dalla guerra in questo inizio di millennio. L’io-poetante, in questo scenario della storia, è un osservatore di ciò che accade al di fuori di se stesso e, nel medesimo tempo cerca per salvarsi una fusione totale con la natura, fusione che gli faccia percepire una realtà soggettiva più accettabile, più a misura di essere umano: in questo intento si fa sfoltire dall’erba e con gli occhi chiusi pota i ciliegi anche se l’esito delle ferite è il frutto che ci afferra…
In questi versi il poeta fa sentire tutto il dolore dell’esserci, dell’essere al mondo, dolore provato sulla sua pelle, ma anche sulla pelle ti tutti, soprattutto dei poeti; in questo c’è, in un certo senso, la tensione a una religiosità di tipo panteistico.
Quello di Alessio Brandolini è uno stile narrativo e nitido e l’autore adopera spesso versi lunghi, di cui è ottima la tenuta; a volte il poeta si rivolge a un tu, una figura femminile, presumibilmente l’amata. Nel rivolgersi all’amata il poeta usa toni forti e c’è molta carnalità, nel campo dell’erotismo, visto come salvifico; gli effetti sono importanti per Brandolini e, come anche in altre raccolte, vengono nominati con amore anche il padre e il figlio. Nel complesso si può dire che Tevere in fiamme, per la sua unitarietà e, anche per il fatto che nessuno dei suoi componimenti sia provvisto di titolo, abbia una certa valenza poematica, una sua coesione, una sua unità interna. Si rinnovano sempre gli stessi temi, gli stessi colloqui del poeta con le sue alterità:

    La città eterna ci rovina addosso, non bastano le palafitte
    né il verde profumo della savana. Ai tropici fa freddo
    e a volte cadono persino grappoli di neve.
    Sono stato sotto i ponti e ho visto le tenebre
    le croci, il fiume tagliato in due dall’oceano dei liquami
    il tatuaggio di nuvole sulla pelle strappata alle lucertole
    (…)

Una forte inquietudine traspare da questi versi e il fiume, il Tevere, altrove in fiamme, qui viene tagliato in due dall’oceano dei liquami (fa capolino dunque anche il tema ecologico). Sembra che l’io poetante con una cinepresa virtuale riesca a captare, probabilmente, nel folto delle notti, accadimenti e scene che non avvengono solo nell’amata Roma, ma anche in altri luoghi della Terra; il suo essere viene trasportato nella savana dal verde profumo o ai tropici dove, paradossalmente, fa freddo.
In questo c’è tutta l’urgenza a diventare cittadino del mondo, del pianeta terra, di fare viaggi turistici, ma anche virtuali, cosa non difficile con i media del postmoderno occidentale. In tutto questo il Tevere si fa depositario della storia e della poesia, diviene simbolo della condizione umana nel suo fluire eracliteo e del suo eterno ritorno. Non a caso il Tevere si trova a Roma, città che è caput mundi e che, nel bene e nel male, fin dai tempi dell’Impero Romano, fino ad essere la città della prima Chiesa Cristiana, fino ai nostri giorni, continua ad essere un luogo mitico, stratificato di storia, affascinante per le sue bellezze architettoniche e artistiche, ancora crocevia per molte persone, turisti o per gli stessi romani, nel loro quotidiano, romani come Brandolini poeta e uomo:

    Grandinata di parole sparate dal silenzio
    strapazzato dai tubi di scarico delle auto
    dai bus lunghi una quaresima voluti dal sindaco ecologista.
    Da un pensiero antico nascosto tra foro d’Augusto e le torri
    le dighe di calcestruzzo di Tor Bella Monaca, del Prenestino.
    (…)

Emblematici questi versi citati per il loro contenuto romano, quando il lettore viene calato in una Roma contemporanea, con il sindaco ecologista e i dannosi gas di scarico: c’è il tema dello scrivere nello scrivere, della poesia nella poesia, nell’incipit Grandinata di parole, inizio che sottende tutto il componimento perché esso stesso composto da sintagmi, parole. Riuscito e ben risolto questo testo di Brandolini, che soprattutto emerge per la sua originalità tematica e formale.
Il libro, come si diceva, comprende anche Zattere d’acqua, una sezione che pare essere autonoma da Tevere in fiamme, che è in realtà concluso in se stesso. In questo segmento il poeta, rimanendo se stesso dal punto di vista formale, ci presenta degli scritti anche essi alti e riusciti. Tutte le parti di Zattere d’acqua sono fornite di titolo e sono frutto di un lavoro di ricerca dell’autore, anche per l’insolito alternarsi in esse di brani di poesia e di prosa poetica.
Molto alto, tra questi brani, “Divoro a pezzi l’allegria”:

    Strappo a morsi l’allegria se penso
    a quella volta che sarebbe stato meglio
    non guardarti in faccia, non dire
                        nulla di te e di noi
    nemmeno avvolgerci stretti nel solito gelido abbraccio.
    Arso dal caso, dalle sue fiamme già da molto tempo.

    Non ci sono nuovi rifugi
    se li cerchi ti scontri
    con pareti sfondate
    porte chiuse dal fuoco
    sigillate dalla stasi dell’aria.
    Per godere d’un altro giorno
    acceca tutti gli astri
    slàcciati dai tentacoli notturni
    se vuoi percuotere più a fondo!
    (…)

Anche in questi versi troviamo la tensione e l’inquietudine del poeta, che si stempera nell’erotismo, anche qui la presenza della notte con l’ansia di essere in grado di godere d’un altro giorno; c’è rabbia in questi versi, ma la tensione si fa salvifica in se stessa, nel controllo formale ed emotivo, in un salutare esercizio di conoscenza.



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