POESIA IN FORMA DI REALTÀ di Marco Testi
La sesta raccolta poetica di Alessio Brandolini rappresenta una naturale prosecuzione della ricerca culminata nel 2008 ne Il Tevere in fiamme (Azimut). Roma e il suo fiume, dunque, e, come nella raccolta precedente, i conti con tutto quel sottofondo tellurico e amniotico che questi due elementi rappresentano. (*) Essendo Brandolini uomo appassionatamente convinto della bontà della funzione della politica intesa come possibilità di governare razionalmente e civilmente la cosa pubblica (e ciò lo rende ascrivibile d’autorità al rarefatto club degli ottimisti) la sua ricerca poematica non è rivolta solo agli archetipi mitici, ma alla comune vita degli uomini.
Anche in questo Il fiume nel mare passato e presente si avvitano uno nell’altro, perché è impossibile dividerli attraverso un preciso confine. L’attenzione per Roma risale alle radici, in quanto prima di Tevere in fiamme e Il male inconsapevole (Il Ramo d’Oro, 2005), esempi di poesia “urbana” e romana fin dalle suggestioni e dai modelli impliciti o esplicitati, vi era stata una raccolta, Poesie della terra (LietoColle, 2004) che aveva denunciato i debiti più lontani, quelli con i modelli radicali ed elementari, la terra dei nativi Castelli Romani e dei Colli Albani, e la figura del padre contadino. Qui emergeva soprattutto l’annoso motivo della sensazione di inadeguatezza del figlio intellettuale rispetto al padre che opera nella realtà dei fatti, in questo caso la terra.
Con il tempo e le esperienze poetiche però questo senso di inadeguatezza e di fatuità verrà pian piano stemperato da un elemento diverso che lentamente è penetrato nella poetica di Brandolini: la possibilità che l’intellettuale si possa caricare del duro lavoro attraverso l’impegno civile totale, quindi anche nel lavoro della scrittura, che diviene vero impegno pragmatico e realmente inserito nel contesto sociale.
Il fiume nel mare non è altro che una delle tappe della soluzione di questo umano dissidio tra vocazione al simbolismo arcaico del lavoro, la terra, passaggio penitenziale che sconta il tradimento rituale del tabù virile paterno e accettazione della nuova forma di impegno fattuale, che coinvolge autore e poesia stessa.
È così che nella presente opera i riferimenti all’infanzia e alla mitologia delle origini si fondono con quelli della collettività.
Roma è uno dei luoghi più propizi per uno sguardo non unicamente privato, ma focalizzato sugli altri, che sono gli abitanti storici, gli inurbati nel corso delle stratificazioni secolari, e gli ultimi, in tutti i sensi, quelli che arrivano con i barconi, quelli che si buttano a nuoto nell’ultimo tratto, a ripercorrere l’urbano passaggio d’Enea riproposto in altri contesti dal grande Caproni.
L’acqua, come nella precedente opera di Brandolini, è l’elemento fondamentale di Il fiume nel mare, e d’altronde già il titolo lo suggerisce, se a fiume consegniamo anche il significato profondo della lotta nella vita di tutti i giorni e a mare il simbolismo dell’immersione nell’enorme placenta del Tutto.
Il grande tema eliotiano (ma di più lontane radici) della morte per acqua ritorna qui, prendendo forza non solo dai simbolismi archetipici dell’amnios materno e insieme terribile e minaccioso (“millenni fa qui c’era il mare/ e tutto era buio. Affonda ovunque/ il nostro pensiero, la nostra storia”), ma dalla cronaca dei giorni.
Il dramma delle migrazioni forzate è divenuto ritorno biblico e omerico di emergenze e di spaventose fughe da terre inospitali: “Attraversiamo il Mediterraneo/ con una barca che galleggia a stento/ tracciando un solco alle nostre speranze. / Poi di notte, a nuoto, verso l’Italia/ se non cediamo alla stanchezza/ se le onde non ci spingono di sotto/ negli abissi, nella liquida tomba./ Salvi se la costa non è troppo distante”. Come non pensare ai rivolgimenti di popolazioni della protostoria mediterranea e medio-orientale, all’arrivo dei barconi dei popoli del mare, all’Esodo, alle genti che lasciavano la terra originaria per fame o perché spinte da popoli ostili, a dimostrazione della saggezza vichiana che aveva intuito motivi “circolari” nelle dinamiche antropologiche?
Brandolini coglie le curiose contraddizioni di una storia che presenta i grandi drammi e insieme i tentativi di rimuoverli, tutte raccolte dentro il motivo dell’acqua. Il mare è elemento mitico e insieme tragicamente attuale del viaggio per la sopravvivenza, ma è anche lo scenario della vacanza “borghese”, di una innaturale immobilità che richiama quella della morte: “restiamo immobili a dormire all’ombra”, o, ma sono semplicemente esempi tra tanti, “per ore a mollo/ nell’acqua salata/ a tagliare al rancore/ le unghie, le labbra”.
L’estate diventa, da tempo del riposo, stagione dell’incubo, per i drammi dei nuovi popoli del mare e per la sensazione di vanità dell’esistenza, analogon delle parole intese come vano nascondimento della verità (“Le parole/ sono virgole/ o dettagli./ Non asciugano/ il sudore/ invece vogliono/ ferire a sangue”).
Qualsiasi tentativo di ignorare la realtà diventa isteria o paranoia: come si fa a “scrollarsi dalle spalle/ i dolori del mondo?/ Restare imparziali di fronte/ agli affanni e alle guerre/ di principio millennio?”.
L’atteggiamento che emerge da Il fiume nel mare non è quello che ci si attenderebbe in un rappresentante della poesia contemporanea, perché evita le secche della contemplazione del crollo dell’impero d’occidente e del sentirsi alla fine della decadenza, come nelle più datate imitazioni o suggestioni di Verlaine, e semmai si fa largo la volontà di combattere e di aggredire i mali del Paese e del pianeta.
Qui è il centro della nuova poetica di Alessio Brandolini, che ne fa una delle più interessanti dei nostri lidi, tanto per rimanere nell’isotopia marina: assistiamo al superamento della contemplazione della propria sensibilità vista come esemplare, e alla ricerca dell’altro, attraverso una serie di mediazioni poematiche che vanno dalla Bibbia alla figura del Cristo (si veda la ricorrenza dei motivi dei chiodi, della croce, delle ferite) e alla suggestione delle istanze che una volta si sarebbero chiamate terzomondiste, quelle in cui i poveri e gli emarginati sono posti al centro del proprio universo.
Poesia però laicissima, questa, nel senso che affronta il dolore degli altri nell’accettazione di tutto ciò che questa partecipazione comporta: lo scontro frontale con l’apparente non-senso della vita e della presenza del male, che talvolta sembra il vero signore dell’esistenza.
Segno radicale di questo progressivo ma corposo mutamento della focalizzazione, da sé all’altro, è l’invito ad accettare l’ombra, a divenire un qualsiasi spettatore in grado semmai di dare una mano, capace di “ridurre il ritmo/ farsi da parte/ e con uno sputo spegnere le fiamme”, per esistere davvero e resistere alla folle ipertrofia dell’immagine che i media ci propongono fino alla nausea in questo scorcio iniziale di secolo.
La natura sembra essere ancora, nonostante le aggressioni stigmatizzate in questa medesima opera, la sola verità, l’unico freno alla corsa verso la fine. Smascherare questa corsa attraverso la rinuncia alle mitologie personali, è lo scopo di questa nuova fase del lavoro poetico di Brandolini.
Di smascheramento si tratta, e di qui la necessità del rifiuto, anche se penoso, delle sirene (non è un caso che torni il riferimento alle mitiche creature del mare, ma d’altronde anche un “realista” moderato come Tomasi di Lampedusa aveva fatto i conti con esse) dei propri miti privati per porre la scrittura al servizio dello svelamento. Perché la poesia, proprio in quanto marginale e gratuita, è in grado di essere indipendente e di riuscire a scorgere la corsa verso il nulla, dipinta di ricchezza fasulla, di felicità accidiosa, di bellezza malintesa, in modo da mascherare la partecipazione di ognuno allo scavo della fossa comune.
Poesia dell’io che accetta una parte nel mare della collettività, che si piega sul destino dei reietti e dei semplici (si veda, per comprendere meglio questo atteggiamento “mimetico”, il Brandolini narratore, e narratore “romano”, nell’esemplare episodio di “Fumo a Piazza dei Mirti” (**) in cui tutta la scena è vista dal punto di vista di un contrabbandiere di sigarette), anche se non è questo che ne fa poesia. Questa o c’è o non c’è, muta in corsa, si modifica, anche attraverso il rimettersi in discussione, abbandonando antichi paradisi privati per farsi reale strumento di cambiamento del mondo.
(*) Per le connotazioni simboliche e mitografiche, soprattutto equoree, di questa poetica rimando al mio Quando il Tevere brucia, recensione del penultimo libro poetico di Brandolini, in “L’Albatros”, n. 4, ottobre-dicembre 2009.
(**) Nella raccolta di racconti Roma per le strade (Azimut, 2007).
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