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che cosa ho scritto

Il fiume nel mare
LietoColle, Faloppio (Como), 2010


Antologia della critica

Sei poesie da Il fiume nel mare tradotte in francese da Viviane Ciampi

Maggio 2010
Alessio Brandolini, con Il fiume nel mare, è tra i 5 finalisti del
Premio letterario Camaiore.

12 settembre 2010
Il fiume nel mare si è classificato secondo tra i vincitori finalisti,
dietro a La felicità del galleggiante (Guanda) di Paola Mastrocola
Motivazione del premio

Una lettera di Lêdo Ivo



Introduzione

POESIA IN FORMA DI REALTÀ
di Marco Testi


La sesta raccolta poetica di Alessio Brandolini rappresenta una naturale prosecuzione della ricerca culminata nel 2008 ne Il Tevere in fiamme (Azimut). Roma e il suo fiume, dunque, e, come nella raccolta precedente, i conti con tutto quel sottofondo tellurico e amniotico che questi due elementi rappresentano. (*) Essendo Brandolini uomo appassionatamente convinto della bontà della funzione della politica intesa come possibilità di governare razionalmente e civilmente la cosa pubblica (e ciò lo rende ascrivibile d’autorità al rarefatto club degli ottimisti) la sua ricerca poematica non è rivolta solo agli archetipi mitici, ma alla comune vita degli uomini.
Anche in questo Il fiume nel mare passato e presente si avvitano uno nell’altro, perché è impossibile dividerli attraverso un preciso confine. L’attenzione per Roma risale alle radici, in quanto prima di Tevere in fiamme e Il male inconsapevole (Il Ramo d’Oro, 2005), esempi di poesia “urbana” e romana fin dalle suggestioni e dai modelli impliciti o esplicitati, vi era stata una raccolta, Poesie della terra (LietoColle, 2004) che aveva denunciato i debiti più lontani, quelli con i modelli radicali ed elementari, la terra dei nativi Castelli Romani e dei Colli Albani, e la figura del padre contadino. Qui emergeva soprattutto l’annoso motivo della sensazione di inadeguatezza del figlio intellettuale rispetto al padre che opera nella realtà dei fatti, in questo caso la terra.
Con il tempo e le esperienze poetiche però questo senso di inadeguatezza e di fatuità verrà pian piano stemperato da un elemento diverso che lentamente è penetrato nella poetica di Brandolini: la possibilità che l’intellettuale si possa caricare del duro lavoro attraverso l’impegno civile totale, quindi anche nel lavoro della scrittura, che diviene vero impegno pragmatico e realmente inserito nel contesto sociale.
Il fiume nel mare non è altro che una delle tappe della soluzione di questo umano dissidio tra vocazione al simbolismo arcaico del lavoro, la terra, passaggio penitenziale che sconta il tradimento rituale del tabù virile paterno e accettazione della nuova forma di impegno fattuale, che coinvolge autore e poesia stessa.
È così che nella presente opera i riferimenti all’infanzia e alla mitologia delle origini si fondono con quelli della collettività.
Roma è uno dei luoghi più propizi per uno sguardo non unicamente privato, ma focalizzato sugli altri, che sono gli abitanti storici, gli inurbati nel corso delle stratificazioni secolari, e gli ultimi, in tutti i sensi, quelli che arrivano con i barconi, quelli che si buttano a nuoto nell’ultimo tratto, a ripercorrere l’urbano passaggio d’Enea riproposto in altri contesti dal grande Caproni.
L’acqua, come nella precedente opera di Brandolini, è l’elemento fondamentale di Il fiume nel mare, e d’altronde già il titolo lo suggerisce, se a fiume consegniamo anche il significato profondo della lotta nella vita di tutti i giorni e a mare il simbolismo dell’immersione nell’enorme placenta del Tutto.
Il grande tema eliotiano (ma di più lontane radici) della morte per acqua ritorna qui, prendendo forza non solo dai simbolismi archetipici dell’amnios materno e insieme terribile e minaccioso (“millenni fa qui c’era il mare/ e tutto era buio. Affonda ovunque/ il nostro pensiero, la nostra storia”), ma dalla cronaca dei giorni.

Il dramma delle migrazioni forzate è divenuto ritorno biblico e omerico di emergenze e di spaventose fughe da terre inospitali: “Attraversiamo il Mediterraneo/ con una barca che galleggia a stento/ tracciando un solco alle nostre speranze. / Poi di notte, a nuoto, verso l’Italia/ se non cediamo alla stanchezza/ se le onde non ci spingono di sotto/ negli abissi, nella liquida tomba./ Salvi se la costa non è troppo distante”. Come non pensare ai rivolgimenti di popolazioni della protostoria mediterranea e medio-orientale, all’arrivo dei barconi dei popoli del mare, all’Esodo, alle genti che lasciavano la terra originaria per fame o perché spinte da popoli ostili, a dimostrazione della saggezza vichiana che aveva intuito motivi “circolari” nelle dinamiche antropologiche?
Brandolini coglie le curiose contraddizioni di una storia che presenta i grandi drammi e insieme i tentativi di rimuoverli, tutte raccolte dentro il motivo dell’acqua. Il mare è elemento mitico e insieme tragicamente attuale del viaggio per la sopravvivenza, ma è anche lo scenario della vacanza “borghese”, di una innaturale immobilità che richiama quella della morte: “restiamo immobili a dormire all’ombra”, o, ma sono semplicemente esempi tra tanti, “per ore a mollo/ nell’acqua salata/ a tagliare al rancore/ le unghie, le labbra”.
L’estate diventa, da tempo del riposo, stagione dell’incubo, per i drammi dei nuovi popoli del mare e per la sensazione di vanità dell’esistenza, analogon delle parole intese come vano nascondimento della verità (“Le parole/ sono virgole/ o dettagli./ Non asciugano/ il sudore/ invece vogliono/ ferire a sangue”).
Qualsiasi tentativo di ignorare la realtà diventa isteria o paranoia: come si fa a “scrollarsi dalle spalle/ i dolori del mondo?/ Restare imparziali di fronte/ agli affanni e alle guerre/ di principio millennio?”.
L’atteggiamento che emerge da Il fiume nel mare non è quello che ci si attenderebbe in un rappresentante della poesia contemporanea, perché evita le secche della contemplazione del crollo dell’impero d’occidente e del sentirsi alla fine della decadenza, come nelle più datate imitazioni o suggestioni di Verlaine, e semmai si fa largo la volontà di combattere e di aggredire i mali del Paese e del pianeta.
Qui è il centro della nuova poetica di Alessio Brandolini, che ne fa una delle più interessanti dei nostri lidi, tanto per rimanere nell’isotopia marina: assistiamo al superamento della contemplazione della propria sensibilità vista come esemplare, e alla ricerca dell’altro, attraverso una serie di mediazioni poematiche che vanno dalla Bibbia alla figura del Cristo (si veda la ricorrenza dei motivi dei chiodi, della croce, delle ferite) e alla suggestione delle istanze che una volta si sarebbero chiamate terzomondiste, quelle in cui i poveri e gli emarginati sono posti al centro del proprio universo.
Poesia però laicissima, questa, nel senso che affronta il dolore degli altri nell’accettazione di tutto ciò che questa partecipazione comporta: lo scontro frontale con l’apparente non-senso della vita e della presenza del male, che talvolta sembra il vero signore dell’esistenza.
Segno radicale di questo progressivo ma corposo mutamento della focalizzazione, da sé all’altro, è l’invito ad accettare l’ombra, a divenire un qualsiasi spettatore in grado semmai di dare una mano, capace di “ridurre il ritmo/ farsi da parte/ e con uno sputo spegnere le fiamme”, per esistere davvero e resistere alla folle ipertrofia dell’immagine che i media ci propongono fino alla nausea in questo scorcio iniziale di secolo.

La natura sembra essere ancora, nonostante le aggressioni stigmatizzate in questa medesima opera, la sola verità, l’unico freno alla corsa verso la fine. Smascherare questa corsa attraverso la rinuncia alle mitologie personali, è lo scopo di questa nuova fase del lavoro poetico di Brandolini.
Di smascheramento si tratta, e di qui la necessità del rifiuto, anche se penoso, delle sirene (non è un caso che torni il riferimento alle mitiche creature del mare, ma d’altronde anche un “realista” moderato come Tomasi di Lampedusa aveva fatto i conti con esse) dei propri miti privati per porre la scrittura al servizio dello svelamento. Perché la poesia, proprio in quanto marginale e gratuita, è in grado di essere indipendente e di riuscire a scorgere la corsa verso il nulla, dipinta di ricchezza fasulla, di felicità accidiosa, di bellezza malintesa, in modo da mascherare la partecipazione di ognuno allo scavo della fossa comune.
Poesia dell’io che accetta una parte nel mare della collettività, che si piega sul destino dei reietti e dei semplici (si veda, per comprendere meglio questo atteggiamento “mimetico”, il Brandolini narratore, e narratore “romano”, nell’esemplare episodio di “Fumo a Piazza dei Mirti” (**) in cui tutta la scena è vista dal punto di vista di un contrabbandiere di sigarette), anche se non è questo che ne fa poesia. Questa o c’è o non c’è, muta in corsa, si modifica, anche attraverso il rimettersi in discussione, abbandonando antichi paradisi privati per farsi reale strumento di cambiamento del mondo.


(*) Per le connotazioni simboliche e mitografiche, soprattutto equoree, di questa poetica rimando al mio Quando il Tevere brucia, recensione del penultimo libro poetico di Brandolini, in “L’Albatros”, n. 4, ottobre-dicembre 2009.
(**) Nella raccolta di racconti Roma per le strade (Azimut, 2007).



Una scelta di testi della raccolta

 

 

Ai morti nel Mediterraneo.                                      
In cerca di una casa,                                      
in cerca di un lavoro.                                      


*

Se accanto a te il profilo si deforma
è colpa dei chiodi infilati nella carne.
Non ti giudico, ma ascolto
il fischio acuto e orrendo del dolore.

Nemmeno un cenno della testa
una mano che stritola un saluto
un’erba di sorriso fra le labbra
una lingua strigliata dal ricordo.

A mettere in discussione
questo giorno è lo spavento dello sguardo
quando la testa diventa una palla di gomma
che rimbalza da un punto all’altro del mondo.

    Riscoprirò la mia città
    sepolta dai rumori.
    Le notti con i ruderi
    i platani: enormi oboi
    che suonano il Tevere.
    E quei passi leggeri ma decisi
    che scendono dai sette colli,
    dai laghi, dai Castelli romani.
    Da secoli lontani, dai mari,
    dagli oceani che non conosco.


*

Si sopravvive anche a questo
tanto le parole enunciate
sono di carta straccia
asole chiuse col filo spinato
così poi non passa
l’aria e si sta più caldi anche se
c’è vergogna per quest’essenza
metallica che ci diminuisce
ci distacca,
ci separa l’uno dall’altro.

Si sopravvive ai ponti che crollano
ai passaggi segreti murati dal tempo
si comincia a credere ai futuri ricordi
si sta davanti al quadro bianco:
con calma lo si riempie con lo sguardo
di colori oscuri, di segni primitivi,
di sogni astratti che non valgono molto.

    Poi, ecco le case
    che franano nel fiume.


*

Il fiume e la città
tagliano in due.
Poi per questo
si sanguina in silenzio.

Tra i rami dei platani
svelti ci si trasforma
in ferite spalancate
al corpo dell’Italia
alle braccia di Roma.

Non visti o in croce
evitati, respinti
sulle strade d’Europa
clandestini e meticci.

Il fiume e la città
ricongiungono i pezzi
laggiù, dentro il mare.


*

Il fiume fa ben poco
per sottrarci al male
inconsapevole
all’aridità dei giorni
al piombo rosso
che ci cola addosso
però conserva in sé
da sempre il giusto
necessario tepore
ne fa scorta
ed aspetta paziente
di metterlo negli occhi
dei candidi uccelli marini
di donarlo a chi percorre
al buio il Mediterraneo
per proteggere i figli
dai morsi della fame
e scavare nel sogno
un’umile abitazione
un lavoro sereno, sicuro.

Quanti corpi galleggianti
in attesa di scivolare a fondo!
Quante mani vuote d’appigli!


*

Ci si vedrà da un’altra parte, in un terra meno sconosciuta
saremo quello che non potevamo essere
ci si scioglierà il sale nascosto in fondo agli occhi
isseremo l’àncora dei vascelli che marciscono nell’anima.


*

Oggi con questo desiderio
antico nemmeno una nave
a vela troverebbe scampo!

Tremano le onde gli scogli le stelle la sabbia
solo nel bianco della luna puoi mettere il dito
scriverci sopra a caratteri enormi
millenni fa qui c’era il mare
e tutto era buio. Affonda ovunque
il nostro pensiero, la nostra storia.


*

            a Tilla
Era la tua una preghiera tranquilla
dietro lo sguardo di lacrime asciutte
il piccolo mare di Dio
con dentro i pesci le barche le reti
la sabbia e gli scogli e un delfino
di plastica blu: quello di mio figlio
che si diverte a svuotare il Tirreno.

Racconto appeso a un filo
tessuto da mia madre
e dalla madre di mia madre
un giorno che il sole occupava
la stanza di lavoro
facendo le sue guance
ancor più rosse
donando al bianco
dei capelli raccolti sulla nuca
il coraggio di tessere altre storie.

Di fratelli nonni mogli mariti
madri padri e zii che stavano
con lei in via degli Artisti
quelli andati oltre l’oceano
quelli morti sotto le bombe
domenica 30 gennaio 1944
con i quali mia madre bambina
era vissuta, fino a un mese prima.


ancora adesso: dei suoi dei miei (nostri) figli. e di quelli che verranno.


*

Lo spazio fasciato delle sue cose leggere in un cartone bagnato
dalla pioggia, dall’umidità del mare. Quella notturna che sfonda
le ossa e le conchiglie. Lascia entrare i sintomi del cambiamento:
i tuoi occhi, per esempio, ieri erano di fuoco, spianati dalla luce
della preghiera e le mani, quelle mani afflitte del padre che ruvide
ti toccano nell’anima e nel corpo, sulle labbra lasciano il marchio
del silenzio e delle parole vive: carne che nutre e divora.

    Il dolore si perde, sfugge
    al calore, alla lingua che vorrebbe
    raccontare i frammenti, i residui
    sulla sabbia al mattino quando
    la calpesti a piedi nudi in cerca
    dell’alba che nel bianco intreccia le parole.
Poi quelle stesse parole spingono a dire, a galoppare la vita,
a cantare nel denso vuoto spalancato dalla cresta dell’onda.


*

            En el fondo del mar
            hay una casa
            de cristal

                 Alfonsina Storni
In croce i corpi a un metro dall’acqua
braccia tagliate impilate da una parte.
Scortecciati e incisi di nomi, cuori, date
frasi oscene, disumane. Le facce gonfie
con bruciature sul collo, gambe, costato.

Come se non fossero uomini
con le loro mogli e madri, i giovani figli
ma esche buone per la morte e il dolore.

Corpi utilizzati per un falò, probabilmente,
arsi con l’impegno di non soffrire mai più
di fame, di lavoro perché giù in fondo
al mare per loro non c’è una casa
di paglia, di mattoni né, tanto meno, di cristallo.

Lupi dal muso gonfio, il collo tirato, le mani aggrappate alle reti.
Dopo la fuga dal proprio paese il naufragio
nell’intrepida attraversata del Mediterraneo
i pochi sopravvissuti ora sono bestie ammassate al di là dei muri.

Eppure erano quei corpi a seguirmi (migliaia restarono nell’abisso)
quei fratelli a sostenere il ritmo
dei passi, delle orme umane che verticali persistevano sulla spiaggia.
A scucire la labbra, a slegare piedi e braccia
a dare un senso al percorso. Ai moti irregolari dell’anima e del corpo.

 

 


Un testo della raccolta tradotto in spagnolo dall'autore

Hai un volto di bambino ribelle, scontroso. Talvolta
di ragazza che in un soffio ha bruciato la giovinezza.
L’onda che viene a travolgerci è il vento che brama
il nostro spirito e veloce lo trasforma in pulviscolo
il sogno in statua di gesso impassibile alla tormenta.

Mare
mare grosso
mare neonato
mare verde smeraldo
mare di processione secolare
mare che viene da alte montagne
mare che congiunge i litorali del mondo
mare che vorrebbe raccontare il suo amore
mare che si gonfia e distrugge la costa e i villaggi
mare che conosce Itaca e prega per il ritorno negato
mare che demolisce e s’attorciglia alle tue piccole dita
spruzzi d’acqua salata sul tuo volto di bambino spettinato.

Osservi ancora con la bocca semichiusa
al di là dell’orizzonte che separa la morte dalla vita. Ora
non ti va di pensare, al bene e al male che assieme verranno.

Tienes la cara de un niño rebelde, arisco. A veces
de una chica que en un soplo ha quemado su juventud.
La ola que viene a arrollarnos es el viento que brama
nuestro espíritu y veloz lo transforma en polvillo
el sueño en estatua de yeso impasible a la tormenta.

Mar
mar grande
mar recién nacido
mar verde esmeralda
mar de procesión secular
mar que querría contar su amor
mar que viene de altas montañas
mar que enlaza los litorales del mundo
mar que conoce Ítaca y reza por el retorno negado
mar que se hincha y destruye la costa y los pueblos
mar que derriba y se enrosca en tus pequeños dedos
chorros de agua salada en tu cara de niño despeinado.

Observas aún con la boca entreabierta
más allá del horizonte que separa la muerte de la vida. No
quieres ahora pensar en el bien y en el mal que juntos vendrán.


NOTA

Otto poesie della raccolta sono state pubblicati nella rivista “Almanacco del Ramo d’Oro” (n. 7 del 2005). Quasi tutti i testi sono stati scritti tra il 2003 e il 2008.

Opere di Nancy Watkins:
in copertina Ali e Acque, all’interno: Rive.

La poesia tradotta in spagnolo è stata letta dall'autore, insieme ad altre, al "VI Festival Internacional de Poesia de Granada 2010", in Nicaragua, nel febbraio 2010.




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