nella rivista Satura, Trimestrale di arte, letteratura e spettacolo, n. 13, 1° trimestre 2011, di Guido Zavanone(inizio)
Fermare la corsa verso il nulla
«Prima c’era il mare. Tutto era buio, non c’era il sole, né la luna, né uomini, né animali, né piante. C’era soltanto il mare, ovunque. Il mare era la madre (...). La madre non era persona, né niente, né cosa alcuna. Essa era lo spirito di quello che sarebbe avvenuto ed era pensiero e moria.»
Alessio Brandolini, con questo suo libro di versi Il fiume nel mare, parte da questo bellissimo squarcio della Mitologia Koghi per un cammino che, attraverso il fiume – il quale rappresenta la vita, con le sue conquiste, i suoi ostacoli, i suoi errori, a volte, con la sua squallida, dolorante quotidianità – ci porti non già verso il Nulla, cui ci attirano tante moderne Sirene, ma verso l’abbraccio del mare, che è il Tutto e anche, dunque, il superamento dell’individualismo, l’aprirsi solidaristico verso gli altri, il senso di un’appartenenza e di un destino comune, di “un mosaico divino” di cui ricomporre i frammenti.
L’incipit è in sordina, si parla delle vacanze estive, del loro scorrere vacuo, degli amori senza futuro, per concludere: “Attendevo il primo giorno d’ottobre / per sparare a bruciapelo all’estate”.
Ma poi neppure il ritorno dalle vacanze alla città può dare appagamento, sommersa, come questa appare, dallo smog e dai rumori: “Ma vista così da vicino / città divina a testa di leopardo / per giorni ti sto addosso / mi tiro dietro lo sguardo offuscato, / il caos, gli squarci al confine urbano.”
Né meglio può dirsi dell’altro protagonista, il fiume, esso pure insidiato dall’avidità e dall’incuria dell’uomo; “Il fiume fa ben poco / per sottrarci al male”: è invaso da palafitte, residui di paglia e umido fango; ha ponti che crollano, case che franano dentro di lui; ha mattoni e massi che lo ostruiscono.
E, tuttavia, “... conserva in sé / da sempre il giusto necessario tepore / ne fa scorta, ed aspetta paziente (...) di donarlo a chi percorre / al buio il Mediterraneo”, siano essi Ulisse ed Enea o i disperati che ai nostri giorni solcano il mare “per proteggere i figli / dai morsi della fame.”
Fiume e mare non sono separabili neppure nella loro finalità ultima che è, per chi guardi in fondo alle cose, salvifica. Così il mare, seppure non immune da crudeltà (una “mitezza” a tratti “feroce”: “Quanti corpi galleggianti / in attesa di scivolare a fondo! / Quante mani vuote d’appigli.”) è fondamentalmente l’elemento che unisce gli uomini, li affratella nel sogno, nella nostalgia di un futuro migliore.
Va detto che questo “mare di processione secolare” (...) “mare che congiunge i litorali del mondo” (...) “mare che conosce Itaca / e prega per il ritorno negato” non è un puro mito, imago maris, ma vive nella realtà, è il Mediterraneo, così come la città di cui si parla è Roma e il fiume è il Tevere.
È, cioè, da sottolineare in Brandolini questa capacità – che viene anche dall’uso sapiente della metafora – di essere nel proprio tempo e, insieme, fuori del tempo; cui s’aggiunge la bravura nel muoversi, anche attraverso efficaci flash-back, dai ricordi dell’infanzia (la casa avita “sottratta ai morsi del male”, le figure del padre e della madre) al presente (con dentro “i nostri cuori malati”, “il nostro impossibile amore”) fino ai “futuri ricordi” (“Ci vorranno decenni / forse un paio di secoli / però ad uno ad uno / uniremo i frammenti” e ancora: “Attraversiamo il Mediterraneo / con una barca che galleggia a stento / tracciando un solco alle nostre speranze.”).
Dunque, in questo ampio sguardo sul mondo, nulla ci appare ancora perduto se conserviamo la speranza, se non restiamo indifferenti dinanzi alle guerre e agli altri mali che affliggono il mondo, se ancora sappiamo rispettare, coltivare la parola e il duro mestiere della poesia. Allora vedremo, sul fiume, nelle barche in processione “i morti che in piedi / salutano i vivi; gli cedono / il diritto di inventarsi / un altro progresso / un’epoca nuova e bella / la strada più rapida e giusta / per salvare e sostenere la Terra”.
Il libro di Brandolini, che idealmente si chiude con questo alto messaggio dal sapore virgiliano, può dirsi quasi un poema per unità di soggetto, per ampiezza di respiro, per la grande metafora del viaggio che vi presiede: un viaggio che “sa di uomo”, sofferto ed emozionante, cui noi pure, coinvolti e commossi, partecipiamo.
dal sito farapoesia, 22 febbraio 2011, di Vera Lúcia de Oliveira(inizio)
Il dialogo con il mondo in Il fiume nel mare di Alessio Brandolini
Le parole sono virgole o dettagli. Non asciugano il sudore invece vogliono ferire a sangue.
Alessio Brandolini
Quello che mi colpisce e ogni volta mi emoziona nella poesia di Alessio Brandolini è il senso forte di vita che avvolge le intense immagini sgorgate da un connubio esemplare fra l’esigenza di cogliere il poetico del mondo, anche se dolente, e la parola esatta in cui esso si condensa. E mi colpisce quel suo ritmo incalzante e singolare, una musica riconducibile non tanto e non solo alla frequentazione dei grandi lirici italiani, ma alla sua irrequietezza di intellettuale e di poeta, al suo slancio verso culture e paesi diversi, al dialogo che instaura con altre letterature, soprattutto di lingua spagnola. Emblematica, in tal senso, è la sua attività di traduttore di alcuni grandi poeti, come nel libro Sordomuta (LietoColle), dell’argentino Jorge Boccanera, traduzione che ha vinto nel 2008 il Premio Camaiore, per la sezione internazionale.
Dalla pubblicazione della raccolta, Divisori orientali (Premio Alfonso Gatto – Opera Prima), del 2002, a Il fiume nel mare (LietoColle), uscita nel 2010, assistiamo ad un percorso di vita e di poesia che, dalla terra di origine e dalla figura familiare del padre, porta l’autore verso paesaggi sempre più vasti e aperti, anche se, paradossalmente, molti testi svelano scenari claustrofobici che imprigionano l’essere in ingranaggi di gesti e convenzioni svuotati di senso.
Nell’ultima raccolta, Il fiume nel mare, l’acqua è onnipresente, accompagna l’essere dalla nascita, nel grembo materno, alla morte, nel mare che è oblio e dimenticanza. In superficie abbiamo un io lirico che, dal paesaggio urbano di Roma e dal suo Tevere, si trasferisce allo scenario della vacanza d’estate al mare. Di pagina in pagina, questo motivo è declinato in tutte le sue sfumature e articolazioni, in una sorta di diario del “percorso estivo”, tracciato – come afferma – “su fogli arancioni” (p.19):
Restiamo immobili a dormire all’ombra con i variopinti teli da spiaggia i quotidiani, le riviste, i libri e i costumi che prosciugano l’aria. (p. 61)
La raccolta è in realtà un poemetto in cui l’io solitario, prima in soliloquio poi in dialogo, si reimpossessa di sé e del mondo, concentra la memoria e acuisce lo sguardo su tempi e spazi diversi della propria esistenza.
Se l’acqua è uno dei fili conduttori di questo viaggio esistenziale, lo è anche il dolore, nonostante il tono pacato con cui l’io lirico dipana un groviglio di sentimenti inespressi o, comunque, celati in un “silenzio stonato” (p.19). In questo senso, come ha ben notato Marco Testi, nella prefazione (“Poesia in forma di realtà”), sono ricorrenti immagini della passione di Cristo – “chiodi infilati nella carne” (p.22), “asole chiuse col filo spinato” (p.27), “in croce / evitati, respinti” (p.29), “spine” (p.31) – riportate al vivere quotidiano, ai rapporti che feriscono, all’indifferenza, al “male inconsapevole” (p.36) che è dentro ognuno di noi.
Il mare ravviva i ricordi, ma insieme guarisce con il suo lento incidere: “il costante frastuono / dell’onda che falcia le barche (…) Cancella i graffi / lasciati dalle spine.” (p.40) Il suo movimento sincrono aiuta a fare ordine e ad armonizzare impulsi, ricordi e sentimenti contrastanti. In realtà, il mare acquisisce lungo il testo diverse sfumature o connotazioni: può essere il rifugio che riporta all’atmosfera ovattata dell’infanzia e della casa, può essere una possibilità di viaggio, una scia luminosa all’orizzonte, un sentiero battuto da marinai e migranti, un ponte che unisce mondi lontani, un confine che separa la vita dalla morte, un abisso, una tomba liquida che seppellisce il sogno degli uomini.
Le giornate di immobilità sulla spiaggia fanno riaffiorare pensieri ed emozioni spesso sopiti nel ritmo veloce delle giornate lavorative. Il lettore si accorge subito che il tono leggero, che solitamente abbiniamo ai giorni di vacanza, non si addice al percorso in profondità compiuto dal poeta e nel quale tutto è rivisto, tutto messo in discussione, la stessa città, Roma, e suo fiume, il Tevere, la vita di ogni giorno, i rapporti consunti dall’indifferenza o dal disamore: “A mettere in discussione / questo giorno è lo spavento dello sguardo / quando la testa diventa una palla di gomma / che rimbalza da un punto all’altro del mondo”. (p.22)
Lo sguardo straniato si allarga al mondo, ai legami che stabiliamo con l’altro, alle relazioni fra nazioni, allo sfruttamento del sud del mondo, alla tragedia di guerre e miserie in tante parti del pianeta, all’inquinamento della terra e delle acque, ai viaggi dei disperati attraverso i mari del mondo: ogni cosa influisce e confluisce nell’altra. Nell’universo allargato in cui viviamo non possiamo spostare un sasso dalla battigia senza che quel gesto abbia implicazioni inattese e sempre più vaste, ora che il mondo sembra, sempre di più, un organismo vivente in cui tutto e tutti sono in correlazione.
La calma dei giorni di mare serve per risvegliare particolari trascurati della vita, lo spazio e il tempo acquisiscono nuova dimensione e le stesse figure familiari ne escono trasfigurate. Il poeta si distacca da tutto ciò che lo imprigiona e condiziona e, come il fiume si versa nel mare, mescolandosi ad altre acque fino a diventare parte del mare, egli si lascia andare alla libertà di riscoprire e di essere altro, che sia - questo altro - il familiare che gli sta vicino, il ragazzo che vende qualcosa all’uscita del supermercato, l’uomo che fugge dal suo paese, gli uomini che attraversano il Mediterraneo su battelli che galleggiano sfidando la legge di gravità. Il mutamento di orizzonti e scenari cambia prospettiva e ricordi, come afferma l’autore:
Subito: in pratica dal primo istante si smette di litigare con tutti con i cani e i gatti, persino con se stessi con i centodue fantasmi portati sulle spalle con i mattoni e i massi che bloccano i fiumi diretti all’Adriatico oppure al Tirreno persino con i ricordi ellenici dello Ionio. Si sta distesi, immobili, a osservare il cielo si aspetta il proprio turno così da mettersi a remare nel profilo mitologico del Circeo. (p.69)
Il grande mare insegna un ritmo diverso al tempo e rende possibile lo straniamento, acuito dal cambiamento di scenario e dalle giornate di calma apparente che aiutano l’io a vedere ogni cosa in modo diverso. La stessa città di Roma, da lontano, sembra più viva e nitida:
Riscoprirò la mia città sepolta dai rumori. Le notti con i ruderi i platani: enormi oboi che suonano il Tevere. E quei passi leggeri ma decisi che scendono dai sette colli, dai laghi, dai Castelli romani. da secoli lontani, dai mari, dagli oceani che non conosco. (p. 22)
Mai vista così da vicino città divina a testa di leopardo per giorni ti sto addosso mi tiro dietro lo sguardo offuscato, il caos, gli squarci al confine urbano.
(p. 32)
Al monologo piano piano si sostituisce il dialogo, prima con un “tu” femminile, poi con un “noi” che comprende ogni essere e, soprattutto, i disperati del mondo in fuga da violenza e fame. Non è un caso la dedica posta all’incipit del libro: “Ai morti nel Mediterraneo. / In cerca di una casa, / in cerca di un lavoro”. Questa tematica, con la sua dolente attualità, diventa allora centrale per un poeta che vede la poesia come necessaria per cambiare l’uomo, per dare senso all’esistenza.
Eppure, se il mare ci riporta all’altro, se ci conduce all’incommensurabile e all’universale, il fiume è l’uomo, è l’individuo. Il Tevere, nel suo incidere verso il Tirreno e il Mediterraneo, può ben rappresentare l’io in movimento, in viaggio: “Costruisco con paglia e fango una canoa sottile e con quella vado lesto dal Tevere al Tirreno.” (p.43). Non solo, può rappresentare un paese, l’Italia, testimone e artefice, nella sua storia, dello sforzo umano di superare i confini. L’immersione nell’acqua è, così, un’immersione nel mondo e nella vita. Il titolo della raccolta, Il fiume nel mare, è il modello e l’immagine di una ricerca di dialogo con gli individui del suo paese e del suo tempo.
È un libro, questo, denso, maturo, coeso, di grande profondità, che offre e consente diversi livelli di interpretazione ad ogni nuova lettura. La grande poesia è senza tempo, ma l’autore ci ricorda continuamente che, per lui, essa deve “allontanare il male e spartire con tutti quel poco di bene avuto in eredità.” (p.42). La raccolta ci riporta, in questo modo, continuamente al presente, instaurando un dialogo critico con la realtà italiana, sollecitandoci a rompere il torpore della sensibilità e della ragione che, oggi, sembra avvolgere le strade e le case di questo paese.
dal sito farapoesia, 18 gennaio 2011, di Caterina Camporesi(inizio)
Su Il fiume di Alessio Brandolini
Non è vero che la poesia sia fatta di nulla: la poesia è fatta di storia, di storia che è vita morale, ed è sempre contemporanea (Stephen Spender)
Alessio Brandolini ha confermato negli anni una dedizione sacerdotale alla scrittura in generale e alla poesia in particolare. Nel tempo poi all’attività di scrittore e poeta ha affiancato quella di traduttore, in particolare per quel che riguarda la letteratura contemporanea dell’America Latina. È anche l’ideatore e coordinatore di Fili d’aquilone, rivista web di “immagini, idee e Poesia”, nonché organizzatore di letture e incontri letterari, soprattutto con I Libri In Testa.
Il fiume nel mare (LietoColle, 2010) è la sua sesta raccolta poetica nella quale con empatica pietas coinvolge il lettore a partecipare al dramma di coloro che, lasciando la miseria delle loro terre, affrontano le peripezie di un lungo e pericoloso viaggio nelle acque di mari, sempre comunque insidiosi, nella speranza di approdare su sponde materne accoglienti per ri-iniziare una vita più umana.
Lo sguardo, soffermandosi sulla realtà sociale contemporanea coglie le drammatiche vicissitudini di quella parte di umanità diseredata, sofferente e avvilita che è costretta a vivere ai margini di un benesessere, quanto meno, non ben distribuito. Il lettore, almeno sul piano emotivo, è sollecitato a partecipare alla sua sofferenza.
Visioni reali e ideali si alimentano a vicenda e attraverso la parola poetica catturando squarci del “sentimento del tempo” che è sotto gli occhi di tutti.
È una poesia che riesce ad inquietare le coscienze, nonostante l’avanzare dell’individualismo più sfrenato e apatico, conseguente al collasso sempre più accentuato dei legami tra gli esseri umani.
La ricerca stilistica mescola sapientemente reale e surreale e accosta frammenti di carattere intimo e autobiografico. L’andamento è per lo più narrativo, fluido, carezzevole e musicale nella concatenazione dei versi, che lo fa sembrare un poema. Si caratterizza per il rigore nel controllo del linguaggio intrecciato in un tessuto dalla struttura variegata e coerente.
La natura nei suoi principali elementi, acqua, aria e fuoco, con i quali l’uomo, consapevolmente o meno, è costretto comunque a mettersi in relazione, occupa un posto di primo piano. A conferma basti ricordare alcuni titoli delle tante raccolte poetiche: Poesie della terra, Mappe colombiane, Tevere in fiamme, sino a quest’ultimo Il fiume nel mare, alle quali si deve aggiungere la collaborazione all’antologia Poesia e Natura - Nuova coscienza ecologica (Le Lettere, 2007).
Il critico letterario Antonio Spadaro suggerisce, in accordo con Margherita Guidacci, una visione biologica e botanica della poesia la quale, attraverso processi di osmosi con gli elementi organici del mondo, può assorbirne succhi più o meno nutritivi e colori più o meno oscuri. La rielaborazione che ne consegue mette in moto il processo creativo, producendo immagini, pensieri, visioni e parole.
Il poeta quindi inspira il mondo e lo espira come opera poetica. È ciò che è avvenuto in Paul Celan nella raccolta Atemwende, Svolta del respiro.
La poesia di Alessio Brandolini nasce soprattutto dalla gamma di esperienze umane, dal suo esserci e dal suo modo di abitare il mondo, vale a dire, nel suo compromettersi, nel lasciarsi attraversare dagli eventi che incontra nel suo cammino e quindi rielaborarli attraverso la parola e il suono.
Al fine di smentire un destino segnato viene messa in campo la speranza che non lascia svaporare la volontà e l’impegno affinché il possibile si realizzi tra i morti che affossano il mare, vale a dire, che ciò che è stato separato possa riunirsi, come quel braccio di marmo (...) che cerca il resto del corpo.
Il mare nella sua immensa placenta è chiamato a ricomporre le componenti sparpagliate perché diano luogo a nuove nascite.
L’intera raccolta è solcata da squarci di vita personale e famigliare nonché da frammenti di vita amorosa sofferta, qualche volta trattenuta: sto nei baci che voglio darti. Spesso l’incapacità di dire porta il poeta a chiudersi nel silenzio: l’orgoglio prendeva al guinzaglio / e ogni volta sfigurava l'amore. / Ce lo tiravamo dietro per giorni / quel lupo senza faccia, né sguardo.
Poi, nella solitudine irrisolta, può anche succedere di stringersi al deserto, o al soffocante calore della menzogna.
dall'Agenzia SIR (Servizio Informazione Religiosa), Num. V. novembre 2010, di Marco Testi(inizio)
POESIA COME “PIETAS” LA SOFFERENZA DI CHI LASCIA LA PROPRIA TERRA
Attraversiamo il Mediterraneo con una barca che galleggia a stento tracciando un solco alle nostre speranze. Poi di notte, a nuoto, verso l’Italia se non cediamo alla stanchezza se le onde non ci spingono di sotto negli abissi, nella liquida tomba. Salvi, se la costa non è troppo distante.
Sono i nuovi popoli del mare, lontani discendenti di quelli che nella protostoria attraversavano il Mediterraneo su barconi, che fanno sentire la propria voce in questa sorta di antico – e insieme attualissimo – coro tragico, con una considerevole variante: mentre di quelli antichi non sappiamo quasi nulla, dei contemporanei conosciamo la storia, le radici, la provenienza, i motivi che li spingono lontano dalle terre materne.
Oggi essi hanno acquistato voce, la voce contraddittoria ed effimera dei media, quella ambigua dei politici e quella della scrittura, in questo caso della poesia. I versi citati appartengono infatti all’ultima silloge di Alessio Brandolini, poeta ormai affermato (è alla sua sesta raccolta poetica), Il fiume nel mare (LietoColle, 96 pagine), che rappresenta una rottura con tanta poesia ripiegata sul sentimento individuale, sull’affermazione delle proprie pene: qui il verso racconta la realtà non per rincorrere l’esistente e per mostrare le credenziali dell’attualità, ma perché è la realtà che occupa prepotentemente il verso, che è cosa ben diversa.
Si prendano i nuclei essenziali di questa poetica: la vacanza al mare che fa da contraltare al mare dei profughi, il senso di colpa e la pena, l’amore sentito come separazione e rifugio dal di fuori, da ciò che accade e di cui si ha, in fondo, paura. Il tutto è attraversato da un linguaggio asciutto, simbolico, trattenuto, al cui interno è possibile ravvisare le parole della laica passione che rimanda ad altra passione: i chiodi, le spine, la ferita, l’acqua e il sangue.
Questo è il dato che più colpisce di Il fiume nel mare: il linguaggio del sacro si avvita in quello della laica passione di quanti sfuggono alla fame e alla persecuzione, mostrando di nuovo le piaghe bibliche, il sacrificio evangelico.
Non è una poesia dichiaratamente religiosa e non è una poesia laica in senso tradizionale, è poesia che semplicemente assume in sé gli abissi del dolore e della sofferenza degli innocenti.
Una lirica come questa spinge per forza di cose alla riflessione sull’oggi e insieme parla di noi: ci dice per esempio che quel senso di malinconia che ci coglie nell’immobilità della vacanza al mare viene dal fatto di bagnarci nello stesso mare in cui in quel medesimo momento annaspano i nuovi diseredati, i refugees di cui parlava, in anni non sospetti – gli anni Settanta! – lo straordinario testo (“noi siamo fuggitivi, camminiamo fuori dalla vita / che abbiamo conosciuto e amato / niente da fare o da dire, nessun posto dove fermarci / ora noi siamo soli”) dei Van Der Graaf Generator, che tra l’altro torneranno in Italia ad aprile.
Ci parla con le parole di una profonda, radicale pietas da cui molta parte della cultura contemporanea si va invece affrancando, dono certamente fatto di semplice poesia, ma dono autentico a chi “percorre / al buio il Mediterraneo / per proteggere i figli / dai morsi della fame / e scavare nel sogno / un’umile abitazione / un lavoro sereno, sicuro”.
Questo è il merito fondamentale della raccolta: essere riuscita nel difficile compito di mettere insieme amore evangelico all’altro, asciuttezza dello sguardo, sprofondamento nel dolore dei nuovi agnelli sacrificali e tradizione poetica che viene da molto lontano, soprattutto quella della morte per acqua che Eliot ha riportato a nuova dignità poetica con la forza del genio senza età.
Su questi orizzonti si gioca la battaglia della poesia oggi, sempre più confinata nelle riserve dell’inutile e dell’inattuale e per questo tanto più essenziale anche a livello didattico. Quando si cercheranno disperatamente gli strumenti per risalire la china dopo l’indigestione di corpi, anzi di parti di quel tutto che dovrebbe essere il corpo vivente, di malattia spacciata per salute, di cattive lezioni fatte da cattivi maestri, sarà necessario ritornare anche alla lezione di gratuità e di libertà che continua testardamente ad offrire la poesia. Come questa di Brandolini, che osa cantare le nuove odissee dei nuovi esuli, con lo sguardo fisso sull’altro, sfidando la cultura dell’effimero, dei lustrini e del pianto egoistico su privatissime separazioni dalla realtà scomoda del mondo.
dal sito Orvietonews, 10 ottbre 2010, di Laura Ricci(inizio)
Scrivendo “su fogli arancioni”, come suggerisce nel bellissimo incipit del suo ultimo libro, Alessio Brandolini torna ad affermarsi, nel panorama della poesia italiana contemporanea, come autore dall’appassionato e originale impegno civile. Il suo ultimo lavoro Il fiume nel mare (LietoColle, 2010) che si è recentemente distinto per il posto d’onore al XXIII Premio letterario Camaiore, conferma quel singolare percorso di tracce e segni che, di libro in libro, ogni volta rimandando al volume precedente, continua e approfondisce una ricerca che, giusto come un vasto sinuoso fiume, tende a guadagnare la vastità catartica del mare, l’ampio liquido spazio in cui il dolore del vivere, non sempre con successo, prova a fluidificare e ad allentarsi.
È sul filo di questa traccia di rimandi che la Roma brandoliniana dei versi di Tevere in fiamme si fa qui più universale e indefinita, che il fiume, delocalizzandosi, diventa flusso universale, archetipo dell’inesorabile faticoso scorrere di ogni vita: non solo umana, ma animale, vegetale, stellare.
Scrivere poesia è, nella nostra epoca, civile di per sé: ci vuole coraggio, nella volgarità di questo inizio di secondo millennio che incombe, a lavorare di cesello con la parola, e ancora più coraggioso e contro corrente appare, nella superficialità che imperversa, l’atto dello scavo e dell’approfondimento. Ma la passione civile di Alessio Brandolini ha dalla sua un mordente in più, deciso, intenzionale e ben definito: la capacità di coniugare, con lucida impietosa tensione, la contraddizione costante tra il richiamo dell'altrove - cosmico o sociale che sia - e il quotidiano, l’ansia verso l’assoluto e la pulsione verso il grido di dolore che sembra provenire da tutti gli elementi del creato:
Tornare a casa sdraiati in un vortice di pensieri in un silenzio stonato che si blocca a mezz’aria non è un gioco da ragazzi, né un giorno festivo. Elettrico emisfero che altera prospettive e ricordi nutre la voglia di riscatto e l’esca che s’aspetta è lo squarcio lunare, il grido soffocato del destino.
Nella stanza accanto però ci sono i figli che giocano nel sonno e io con loro sono un cucciolo di lupo in cerca d’affetto, in cerca d’una madre.
Tra il sollievo, raro e intermittente, di giornate di luce familiare, di ricordi buoni dell’infanzia e della terra, di schiocchi focosi e accecanti che, dopo l’esaltazione, lasciano l’amaro in bocca, tra il grido dei nuovi sanguinanti pellegrini d’Europa - clandestini e meticci - tra ”corpi galleggianti in attesa di scivolare a fondo” e “mani vuote d'appigli”, il fiume poco riesce a fare per sottrarre al “male inconsapevole” i suoi figli, per proteggerli “dall’aridità dei giorni e dal piombo rosso”.
Il richiamo di Brandolini alla sua opera poetica precedente - Il male inconsapevole appunto - diventa esplicito e, del male inconsapevole, questo suo ultimo lavoro ripropone, in modo forse ancora più scabro spietato, i segni simbolo del dolore mutuati dalla passione di Cristo: rovi, tagli, chiodi, croce, lacerazione del costato, filo spinato. Ma anche, di quella passione, il valore di redenzione e di riscatto, il passaggio dal fiume angusto alla vastità purificatrice del mare:
A mezzanotte ho acceso dodici candele sul davanzale della finestra della mia piccola stanza. Segno con l’ombra ogni respiro esterno, ogni passaggio: gente senza una casa, alberi ondeggianti e animali in fuga dalle luci, dai rumori. Esco a donargli il pane, la frutta del mio giardino.
Passo la freccia da parte a parte: buco i piedi, il costato, la gola, il collo, le tempie, le mani. Nel frattempo colano i pensieri e il sangue resta rappreso: materia inossidabile da scalfire con la ruggine dei chiodi, del filo spinato dei Centri di identificazione ed espulsione.
Allontanare il male e spartire con tutti quel poco di bene avuto in eredità. Perché nel rancore, nel cinismo le azioni illividiscono e il corpo non è lo scudo che protegge dagli assalti.
Allora provo a benedirla questa stupida demenza con gli zampilli d’acqua benedetta, così nella notte i bagliori di luna, di stelle si trasformano in pietre leggere, in zattere di foglie che lentamente
ci trascinano via dalle guerre e dai recinti. Costruisco con paglia e fango una canoa sottile e con quella vado lesto dal Tevere al Tirreno.
Accanto ai simboli del dolore, a lingue di fiamme, da immagini di freddo classicismo emergono, nel fiume, braccia e pezzi di statue, di gesso e di marmo: forse l’ineluttabile, insopportabile indifferenza della storia.
Poesia dura e spietata dunque, questa dell’ultimo lavoro di Brandolini, scabra e anti lirica, di netta e chiara denuncia, in cui la salvezza si prefigura nel difficile viaggio attraverso i flutti del mare. Salvi, come il poeta scrive, se si nuota nella notte, se non si cede alla stanchezza, se le onde non spingono nella liquida tomba; se non è troppo distante la costa: condizione dell’esule che attraversa il Mediterraneo verso l’Italia, metafora del faticoso esilio della vita, della solitudine di ogni ardua ricerca.
La stessa solitudine che caratterizza il lavoro rigoroso della scrittura, la rincorsa dell’ossessivo manifestarsi della malìa imperiosa del verso, l’osservazione distante ed esatta, la traccia controcorrente - demistificatrice - delle mappe:
Per giorni annusiamo il profumo rincorso per oltre trent'anni e allora ci assale la voglia di remare da soli controcorrente nutrirsi d’alghe ridurre il ritmo farsi da parte e con uno sputo spegnere le fiamme.
Poi svelare con calma alle sirene le distanze tracciate con il sangue nelle mappe solitarie.
MOTIVAZIONE PREMIO CAMAIORE 2010 (Vincitore finalista)
Alessio Brandolini, Il Fiume nel mare (LietoColle, 2010)
Enunciato dal titolo, il fascino della dimensione fluida, già elemento animatore di precedenti prove poetiche di Brandolini, rappresenta la fonte di ispirazione primaria e sostanziale di questa nuova raccolta, che sfugge tuttavia al rischio di una vibrazione monocorde grazie al profondo anelito dell’autore a sperimentare e interpretare poeticamente tutte le possibili sfaccettature semantiche della sua condizione, sottraendosi alla convenzionalità della raffigurazione esteriore cui ci assuefà, accecandoci, l’abitudine: Il “fiume che scorre tra le gambe dei palazzi umbertini”; “La nave stabile e necessaria dell’Isola sacra”.
Nella sua smania di strapparsi dal volto la maschera dell’usuale, del quotidiano, del luogo di lavoro, Brandolini sfigura le immagini e le destruttura alla Picasso per rivelare la struttura interiore e inosservata delle cose e delle vicende umane d’oggi: “In croce i corpi a un metro dall’acqua / braccia tagliate impilate da una parte” “Lupi dal muso gonfio, il collo tirato, le mani aggrappate alle reti / … come se non fossero uomini”.
Brandolini accoglie e rivisita in modo personalissimo le suggestioni affioranti nell’immaginario poetico e culturale, da Omero a Virgilio, dalla Bibbia alla poesia novecentesca, ma tra gli snodi semantici della raccolta è in definitiva l’acqua che emerge come medium arcaico del viaggio: percorso spinto dalla sete di conoscenza e doloroso nostos, necessità teleologica, tensione a penetrare in un’altra dimensione, come il varco dello specchio in Lewis-Carrol.
Il viaggio del fiume verso il mare si pone come stigmatizzazione metaforica della condition humaine: a partire dal liquido amniotico che porta l’uomo alla vita, passando per il bisogno ungarettiano di sintonizzarsi con la liquidità per sentirsi “docile fibra dell’universo”, cercando un’intima fusione tra l’essere umano e la natura, all’insegna proprio della fluidità (con le parole di T.S. Eliot “Il fiume è dentro di noi, il mare tutto interno a noi”): è questa la sovrapposizione semantica che realizza una più profonda osmosi tra la fluidità della natura e la fluidità del poeta: “Lenta la notte passeggia nelle vene”; “Aggrappati alle vene nascoste della terra”.
Fino ad arrivare alla resa, all’abbandono: “Ho le labbra, / le mani legate e non posso che dire di sì / all’Arno. A questa mite, feroce tenerezza.”
Corrado Calabrò
Lido di Camaiore, 11 settembre 2010
dal sito Fili d'aquilone, rivista d'immagini, idee e Poesia, n. 18 (apr/giu 2010), di Oscar Palamenga(inizio)
ALESSIO BRANDOLINI, IL FIUME NEL MARE La lunga estate del poeta
Leggendo l’ultima raccolta poetica di Alessio Brandolini, Il fiume nel mare, si ha subito la sensazione di una sospensione spaziale e temporale: è la sospensione dell’estate, della vacanza borghese, del riposo dopo un anno di lavoro e di vita “normale”. Sebbene nel titolo la raccolta voglia essere la naturale prosecuzione del recente Tevere in fiamme (2008), con l’elemento acqua sempre più simbolo di liquido amniotico e quindi di archetipo materno, i contenuti dell’opera differiscono di molto dal precedente lavoro.
Se il fiume rappresentava la lotta per la sopravvivenza nella vita quotidiana, la riscossa sociale che tanto avvicina le tematiche brandoliniane a quelle pasoliniane, qui il mare rappresenta il tutto, l’immersione nell’enorme placenta cosmica. Il mare è madre che rigenera, ma è anche la tomba per quegli sfortunati che tentano di attraversare il Mediterraneo nel tentativo di sopravvivere, alla ricerca di una vita dignitosa; ed è soprattutto lo sfondo della vacanza borghese, quella che i benestanti italiani si concedono dopo un anno di lavoro in città.
Lo scenario stride, come ci fa notare Marco Testi nella bellissima e acuta introduzione al libro: da una parte il terzo mondo che assale le nostre spiagge per sopravvivere, dall’altra la benestante famiglia borghese che assale la spiaggia per ristorarsi dal caldo estivo. E in mezzo c’è il poeta che, uscendo dall’ipertrofia dell’io tipica di tanti poeti nostrani, è alla ricerca dell’altro, vuole capire e dare una mano e rifiuta la passiva indifferenza. Ma la lunga estate del poeta non è solo solidarietà agli immigrati o vacanza borghese da trascorrere con moglie e figli. C’è soprattutto voglia di riflettere a fondo sulle cose, di usare il proprio tempo libero per comprendere il significato e la direzione di una vita, un’indagine introspettiva assillante che serve a ricaricarsi, a dare senso alle cose.
Ecco perché qui prevale la aspazialità e la atemporalità. Il luogo è un posto di vacanza, mai troppo specificato anche quando lo si indica (il Tirreno, il Circeo), il tempo è il caldo torrido dell’estate, con le sue serate rigeneratrici, le notti insonni a meditare su tutto, i giochi in spiaggia con i bambini e le nuotate in un mare sempre più metafora di vita e di morte. Il poeta è alla ricerca di nuove motivazioni:
Quando tutto verrà spento più tardi, verso mezzogiorno noi due risaliremo il fiume sottobraccio, a passo svelto.
Ben oltre la foce troveremo l’inizio e anche la ragione del nostro viaggio. (...)
(pag. 26)
È subito ben chiaro lo scopo della vacanza e del viaggio di risalita del fiume che, con ovvia metafora, ci porta dritto alla riscoperta delle radici, del punto da cui è partito tutto. È un percorso iniziatico, col sottofondo del caldo estivo, nella speranza di un futuro migliore.
(...) Si sopravvive ai ponti che crollano ai passaggi segreti murati dal tempo si comincia a credere ai futuri ricordi si sta davanti al quadro bianco: con calma lo si riempie con lo sguardo di colori oscuri, di segni primitivi, di sogni astratti che non valgono molto.
Poi ecco le case che franano nel fiume.
(pag. 27)
Il quadro deve tornare ad essere bianco, e bisogna ricominciare a riempirlo da capo, magari con archetipi primitivi e astratti. Ecco a cosa serve la vacanza, ecco dove porta l’interruzione della vita quotidiana e l’immersione in una nuova realtà fatta di riposo e soprattutto di meditazione. Le convenzioni sociali sono spezzate, ora si dà libero sfogo ai propri pensieri e ai propri demoni rinchiusi per troppo tempo dentro di sé:
(...) Forse per questo il volto della statua che contiene i nostri destini è esploso.
In schegge d’acqua salata in frantumi di verità che ora affondano il mare.
(pag. 38)
La verità è in frantumi, così come la vecchia vita in città, a Roma, e tutte le certezze sono da rifondare e ricostruire.
Un mattino ci si scopre in vacanza senza saperlo, lontani da casa in mezzo a un azzurro folto ignorato dalle chiacchiere in un miscuglio antico di cenere e lamento più costante e tenace della nostra flebile voce mescolata alla pioggia all’affanno che strappa all’ombra instabile più del normale. (...)
(pag. 65)
La vacanza diventa quindi sempre più metafora di riflessione, forse a riprendere la stessa etimologia della parola (vacuus = vuoto), pur nella consapevolezza che, mentre il poeta riflette sul senso della vita, c’è gente che quella vita la sta perdendo in mare, magari a pochi chilometri dal posto in cui lui fa il bagno e si abbronza. Però non è questo, secondo me, l’aspetto principale del libro. Numericamente saranno sì e no cinque le poesie che parlano degli emigrati che perdono e rischiano la vita nel Mediterraneo per raggiungere le coste italiane. La cronaca delle morti in mare è un doloroso sottofondo alle meditazioni del poeta, quasi a ricordare che la vita reale è fatta di sofferenza, di morte vera e di miseria, quasi che il poeta provasse vergogna della sua impotenza, del suo starsene in vacanza. È come se il poeta borghese, vergognandosi dei suoi privilegi di benestante, cercasse in qualche modo di fare ammenda dando voce ai più sfortunati, agli emarginati, ai derelitti del mondo moderno che affidano le loro tenui speranze di sopravvivenza alla clemenza del mare. Tale esigenza spiega meglio la dedica della raccolta: Ai morti del Mediterraneo. / In cerca di una casa, / in cerca di un lavoro.
Però a mio avviso il nucleo tematico della raccolta resta la crisi interiore del poeta che, a causa della vacanza (o grazie ad essa), fa i conti con se stesso e riesamina tutta la sua vita: i ricordi, i valori e gli antichi ideali, gli amori e gli affetti, la stessa scrittura poetica, sin anche lo scopo della propria esistenza.
Per niente facile, dopo. Tirare dritto come se tutto fosse già accaduto. Ridere e far finta di stare in forma durante il lento viaggio del ritorno tra i morti che affossano il mare le nuvole che spezzano le strade le orrende pareti di gesso e cartone. (...)
(pag. 28)
La vacanza sta cambiando radicalmente l’io del poeta; già si capisce che sarà estremamente difficile tornare alla vita quotidiana in città:
Anche tu ami gli uccelli bianchi dalle ali morbide più del pane per questo rubare vorrei alla fine d’un sogno e dell’estate quando già si comincia a pensare al ritorno al proprio quartiere al monotono lavoro ai problemi di tutti i giorni alle leggi nefaste del governo alle guerre e al fanatismo religioso.
(...)
(pag. 48)
Passato il ferragosto il poeta si rende conto che sono rimasti ancora pochi giorni per trovare delle risposte, ed è inutile chiederle alla moglie o ai figli; forse è più opportuno chiederle al mare, magari mentre si nuota.
(...) A quest’ora si nuota per il caldo e ogni bracciata è quella giusta quella che insegna a non abbandonarsi alla gelida corrente a vivere l’allegria che affoga le incertezze del cuore, della mente.
(pag. 66)
Ma le incertezze rimangono, anzi aumentano ogni giorno che passa. È proprio nelle notti d’estate, lunghe e calde, passate insonni ad osservare i propri cari che dormono, che il poeta capisce che l’inquietudine è la sua condanna; le sue aspettative restano deluse, non riesce a trovare risposte.
Per giorni annusiamo il profumo rincorso per oltre trent’anni e allora ci assale la voglia di remare da soli controcorrente nutrirsi d’alghe ridurre il ritmo farsi da parte e con uno sputo spegnere le fiamme.
Poi svelare con calma alle sirene le distanze tracciate con il sangue nelle mappe solitarie.
(pag. 77)
Non resta quindi che tornare al lavoro, alla quotidianità, ai problemi di tutti i giorni, con la consapevolezza che la fiamma interiore del poeta non si può spegnere, nemmeno con il caldo abbraccio di una mite estate in vacanza.
L’acqua del mare smacchia le rocce con le impronte, il volto, le labbra. Non ci sono gli applausi delle sirene ma l’umore dell’onda riduce il silenzio a soffice schiuma l’io isolato e il noi annoiato. Conto le ore che separano dalla mia maschera da indossare di nuovo al ritorno al lavoro.
Ammicca oltre gli scogli l’occhio intermittente del faro. Lo raggiungeremo a nuoto, prima o poi.
(pag. 89)
E la speranza di raggiungere il faro, di trovare la luce che illumini la vita, è la stessa musa ispiratrice della poesia, di questo fiume nel mare di Alessio Brandolini: un lungo viaggio che affascina e sorprende.
dal sito Fabruaria, Ars Poetica, 12 aprile 2010, di Anna Elisa De Gregorio(inizio)
Il fiume nel mare di A. Brandolini. Intimismo e impegno civile come in una mela spaccata a metà
«Quando appare un buon libro di poesia ci si vorrebbe inginocchiare per strada, baciare il selciato dove passano tutti e dire: qualcosa di grande di umanissimo abita ancora questa terra dura…». Così inizia un trafiletto di Davide Rondoni sul Domenicale de Il Sole 24 ore (naturalmente un magro trafiletto, come magro è sempre lo spazio riservato alla poesia). Ho pensato la stessa cosa leggendo l’ultimo libro di Alessio Brandolini Il fiume nel mare (LietoColle, 2010), il sesto dopo cinque ottimi libri, di grande spessore, fra i più interessanti degli ultimi venti anni di poesia italiana (da sottolineare l’intensa e acuta prefazione di Marco Testi, Poesia in forma di realtà).
Perché questo libro è differente?
Perché succede (succede e basta) che un giorno si maturino certi intenti, si illuminino certi pensieri e si scriva un libro intero in continuo stato di grazia fin dalla dedica: «Ai morti nel Mediterraneo. / In cerca di una casa, / in cerca di un lavoro». Un libro inciso con lentezza, a partire dal 2003, ovvero in contemporanea a libri via via pubblicati, come se quest’opera necessitasse di un tempo più largo, di un percorso più lungo.
La scelta di un dettaglio, di un verso sempre più pronto al levare, parole del parlare quotidiano che diventano intuizioni poetiche, i secchi ed efficaci enjambements, la continuità e contiguità armoniosa fra pensiero e parola, la concentrazione tesa e pulita da ogni superflua emozione. Davvero la stretta caverna, da cui Brandolini (come ognuno di noi) è costretto a sbirciare il mondo, a un certo punto si apre in un cerchio di luce che fa chiarezza: nessun alibi è più possibile davanti alla crudeltà e all’ingiustizia del mondo, ogni accadimento, il più modesto, si ammanta di terribile consapevolezza e partecipazione al dolore, ma anche di quella purezza perduta, che sempre dovrebbe essere la sostanza della poesia.
Ancora una volta l’acqua è l’elemento in cui nasce, si definisce, si stempera ogni esperienza, così come nel precedente Tevere in fiamme (2008), ma in quest’ultimo libro l’acqua si è aperta in un delta, si spalanca a ventaglio e lenta entra nel mare, nella vita di tutti. Il mare-madre che accoglie e comprende…(«e tutto a comprendere e a prendere niente venne qui sulla terra il poeta» dice Sergej Esenin) e allo stesso tempo rigetta o inabissa. La profonda compassione cristiana per gli altri (per tutti gli altri, da qualsiasi luogo essi provengano) è il sentimento guida, quello che si prova mantenendo il distacco, con l’occhio già verso un altrove migliore da costruire. Engagement und Distanziering.
Discesa negli inferi e ritorno, allora, dove le urla e le morti si filtrano in dubbi, in domande, in una “religo” fra se stessi e il mondo che ci obbliga a una responsabilità e a un impegno costante verso i più deboli, i tanti poveri cristi che implorano aiuto e noi siamo troppo presi per ascoltarli, troppo assenti per aiutarli. In fondo, in fondo al cuore, ben rannicchiata c’è sempre una speranza (ammalata di paura, spesso), una via di salvezza negli occhi dei bambini, dei figli di questo mondo globalizzato.
Come in Tevere il fiamme, anche qui le certezze sono assai poche, ma le parole struggenti sono sostanzialmente più dolci e lievi, composte in una forma metrica più equilibrata e classica, ma sempre vola alta e naviga tra le onde la parola improvvisa e di accusa, quella che mette fuori rotta e sovverte la vita quotidiana: “Più tardi con una morbida giravolta / affronta lo scompiglio cittadino / si tuffa nel Tevere in secca / metta la bocca nell’amo lucente / sì, lo stesso che da sempre lo aspetta”. Ecco l’urlo, o squarcio che stravolge l’ordinata e tranquilla vita quotidiana, il salato che annulla il dolce.
Lo stesso disegno sulla copertina del libro dell’artista americana Nancy Watkins ha una levità solo apparente di azzurri e di bianchi, ma dentro (o sotto) c’è tragedia, con quei gabbiani che guardano dall’alto a testa in giù un’onda anomala che travolge le barche (le vite) indifese. In primo piano una punta di rosso, come un lembo di terra insanguinata. È vero: la copertina di un libro è sempre importante, lega e ammalia, anticipa un segreto.
Ne Il fiume nel mare riconosciamo tracce e solchi profondi di temi trattati nel precedente Tevere in fiamme: per esempio la figura del padre e il lavoro poetico (“Devi sapere quando dona / padre questo duro lavoro / sulle parole, con la poesia. / Saldato alla tua schiena / alla tenera pietra del tuo volto”), la zattera alla deriva, le labbra trafitte dalle spine, ancora il fiume e il Tevere, Roma e i Castelli romani, il Circeo, i ruderi e le città sepolte... Il concetto di “residenza” segna molto la poesia di Alessio Brandolini: i luoghi mitologici e familiari, il paesaggio urbano e marino, gli odori della campagna laziale: tutto ci forma e ci colora, ben oltre la pelle, indelebilmente, come un tatuaggio dell’anima.
Due le sezioni di cui una, la più consistente e densa dà il titolo al libro ed è quasi un racconto, un largo poema consumato in una estate di vacanza al mare, in un intreccio di ricordi estivi; l’altra, brevissima, Tramonto sull’Arno (composta da tre frammenti), è come un congedo al lettore, il momento del distacco fra un’esperienza che finisce e l’idea nascente di quella successiva. Fin dai primi versi, il poeta si augura di cambiare direzione: «È ora di far posto a nuovi pensieri/ alle rose che leste scalano il muro./ L’acqua che scorre calma sotto il Ponte/ Vecchio è ghiaccio fuso dal tramonto./ Oggi o mai più, mi balbetto addosso…». Come un desiderio di stemperare il dolore, di lasciare al sole più spazio.
E due sono i registri che convivono in armonica bellezza e forza (contundente) d’ispirazione ne Il fiume nel mare, come una mela spaccata a metà: in una delle parti c’è dura denuncia, parole d’impegno civile e testimonianza, di sincera solidarietà, di sofferenza (“In croce i corpi a un metro dall’acqua / braccia tagliate impilate da una parte”), d’impotenza a contrastare il cinismo dei nostri giorni; nell’altra percorsi più intimi e segreti, frammenti di un discorso amoroso, minime storie di vacanza, di figli e genitori, di ricordi di persone amate e scomparse (come il poeta peruviano Jorge Eduardo Eielson), di donne desiderate, di un sole-pesce che guida e sfugge alla presa, di sogni e incubi, di lente ma audaci fughe interiori: “Colleziono lumache / più veloci del tempo / testuggini marine / con un feroce / senso d’orientamento”.
Due poesie desidero evidenziare, per intero, a sostegno di quello che ho appena scritto. La prima, a pag. 84:
Nel frattempo l’immagine distratta di uomini inermi appena sbarcati passa e ripassa tra il mare e la spiaggia.
Tracci una retta perfetta di sogni affilati di confini e barriere di musi d’animali di giorni afflitti da una tenace follia. La gioia si nasconde nel raggio giallo imperturbabile del sole che in un attimo arrossa la fronte e il naso il calcolo perfetto della nostra ragione del nostro distacco.
Nel frattempo l’immagine sfocata d’un corpo galleggiante e inerme passa e ripassa tra il mare e la spiaggia.
Visioni alterate, come in un montaggio cinematografico di bellezza e terrore, di luci e ombre perché a questo ci obbliga la realtà quotidiana; la sensibilità del poeta è messa a dura prova e la pelle soffre e s’infuoca, la ragione (con il cuore) sembra non reggere all’ansia, alla preoccupazione, al dolore per quei corpi galleggianti nell’acqua che si trasformano in macabro ma interessante spettacolo televisivo.
Poi a pag. 85:
Chiedersi che faranno da grandi questi bambini già adulti è come scavarsi una fossa e poi starci dentro fino a mezzogiorno quando il sole picchia e trova le ferite giuste e allora si corre a casa al fresco del condizionatore si fa una doccia s’accende la tivù si guardano i programmi che elencano guerre e atti terroristici sparsi nel mondo e spesso si ride per mascherare la rabbia per ricomporsi in un silenzio farraginoso.
Mi sembra di riconoscerli attraverso il mirino della macchina fotografica che sempre mi porto dietro. Questi bambini che corrono, corrono magnifici e instancabili nella luce scolpita del Tirreno.
Ecco invece i bambini di cui parlavo che tenacemente seguitano a giocare e a correre donando la giusta (necessaria) speranza e poi quella luce azzurra “scolpita” dal Tirreno che apre un varco improvviso, forse quello della stessa poesia fattasi umile nel riempirsi di cose umane, nell’accogliere il dolore e la tragedia, nell’abbraccio con gli altri, i vivi e i morti, nell’unire il proprio debole fiume alla forza immensa del mare: al suo pensiero, alla sua memoria. E mi piace finire come ho cominciato, ovvero con le parole di un poeta, quelle di Francesco Scarabicchi che in una recente intervista afferma: «Anche nel cuore profondo del tragico c’è una luce di uno splendore terribile e meravigliosa che pronuncia il “sì” all’essere al mondo, all’essere del mondo».
dal sito Vico Acitillo 124 - Poetry Wave, Recensioni, Saggi e Note critiche, 2010, di Raffaele Piazza(inizio)
Alessio Brandolini: Il fiume nel mare
Alessio Brandolini è nato a Frascati nel 1958 e vive a Roma, dove si è laureato in Lettere moderne. Ha esordito come poeta nel 1989 sulla rivista Galleria. Ha vinto numerosi premi letterari e ha pubblicato, prima della raccolta che prendiamo in considerazione in questa sede, cinque libri di poesia.
Il fiume nel mare è scandito in due sezioni, quella eponima, che comprende quasi tutto l’insieme dei componimenti, e “Tramonto sull’Arno”, una sequenza di tre poesie. Come scrive Mario Testi nello scritto che apre la raccolta, intitolato “Poesia in forma di realtà”, la sesta raccolta poetica di Alessio Brandolini rappresenta una naturale prosecuzione della ricerca culminata nel 2008 ne Il Tevere in fiamme. Roma e il suo fiume, dunque, e, come nella raccolta precedente, i conti con tutto quel sottofondo tellurico e amniotico che questi due elementi rappresentano. Anche in questo Il fiume nel mare passato e presente si avvitano l’uno nell’altro, perché è impossibile dividerli attraverso un preciso confine. L’attenzione per Roma risale alle radici, in quanto prima di Il Tevere in fiamme e Il male inconsapevole, 2005, esempi di poesia “urbana” e romana fin dalle suggestioni e dai modelli impliciti o esplicitati, vi era stata una raccolta, Poesia della terra, 2004, che aveva denunciato i debiti più lontani, quelli con modelli radicali ed elementari, la terra dei nativi Castelli Romani e dei Colli Albani, e la figura del padre contadino. Qui emergeva soprattutto l’annoso motivo della sensazione di inadeguatezza del figlio intellettuale rispetto al padre che opera nella realtà dei fatti, in questo caso la terra.
Tutti i componimenti poetici della raccolta sono senza titolo e, anche per questo, complessivamente, si può affermare che l’opera ha una valenza poematica. Poesia particolarissima, quella di Alessio Brandolini, per il tessuto linguistico dal quale trapelano originalità e visionarietà. Lo stile dei versi di questo libro è narrativo, di una narratività, tuttavia, non semplice ma complessa, per la natura dei sintagmi che sono disposti sulla pagina in maniera molto specifica e composita e sono accostati l’uno all’altro in modo molto particolare, quasi che tra l’uno e l’altro, molto spesso, non ci fosse nesso logico.
Quello che colpisce, nella ricerca di Brandolini, è la sua capacità eccezionale di creare, tramite le parole, immagini sempre icastiche e di accostarle, giustapporle l’una all’altra, come se, da ognuna, ne sgorgasse un’altra. Ovviamente non si arriva mai ad una mera alogicità, nella poesia del nostro, viceversa tutto si mantiene su un piano di razionalità, anche se c’è, inevitabilmente, oscurità e complessità, in un tessuto caratterizzato da una forte densità metaforica e sinestesica. In questa poesia è presente spesso il tema degli affetti familiari della vita domestica, dei figli:
(…) Tornare a casa sdraiati in un vortice di pensieri in un silenzio stonato che si blocca a mezz’aria non è un gioco da ragazzi, né un giorno furtivo. Elettrico emisfero che altera prospettive e ricordi nutre la voglia di riscatto e l’esca che s’aspetta è lo squarcio lunare, il grido soffocato del destino.
Nella stanza accanto però ci sono i figli che giocano nel sonno e io con loro sono un cucciolo di lupo in cerca d’affetto, in cerca di una madre.
(...)
L’occhio del poeta scruta con attenzione tutto ciò che lo circonda e lo traduce in versi avvertiti e leggeri, pur nella loro grande efficacia: da notare nei versi suddetti che tornare a casa sdraiati in un vortice di pensieri non è un gioco da ragazzi, quando nella stanza accanto però ci sono i figli, che sono, presumibilmente ragazzi e giocano con l’io-poetante che, probabilmente, giocando torna ragazzo. E il tema del gioco torna in un altro alto componimento nel quale per giorni si corre lungo una spiaggia con temerarie capriole nell’acqua e poi ci si sdraia, e si fanno castelli e vulcani di sabbia.
Anche la natura pare avere un certo peso nella poetica di Brandolini, a volte rarefatta e visionaria, non priva di una tendenza all’incanto per qualcosa che tenta sempre di sfuggire dai sensi e dai pensieri; la natura, in questa poesia, ha diversi modi di manifestarsi, a partire dalla corporeità dell’io-poetante (“e quando mi preoccupo per i tagli sul collo”), fino a toni più distesi e quasi idilliaci (“Cammino dietro al vento che semina alberi/ nella sabbia bollente, nel deserto/ inseguo i riflessi dell’occhio splendente/ del sole-pesce materno che va dritto al mare”). In questi ultimi versi c’è linearità dell’incanto e molto bella è l’immagine del vento che semina alberi, come se il vento facesse cadere semi dagli alberi stessi che poi divengono essi stessi nuove piante, cadendo nel terreno fertile.
Anche il tema amoroso è presente nei versi di Il fiume nel mare quando il poeta scrive ad un “tu” che, presumibilmente è quello dell’amata:
(...) Ho deciso di scriverti ogni tre giorni per sapere se amarti o cancellare alla svelta questo sogno chiassoso la fitta rete dei canali che ci attraversano con dolcezza tagliano a pezzi il paesaggio: il cuore, le mani.
C’è qui tutta l’ansia della tensione amorosa e la percezione di una forte corporeità che viene detta nella fitta rete dei canali che ci attraversano (vene, arterie) e nell’essere nominati il cuore e le mani. Anche il fiume, il Tevere, ritorna spesso in questi versi, anzi è un tema centrale, come si può evincere dal titolo della raccolta:
Rapido il fiume taglia in due l’esile fantasma delle paludi pontine gli specchi d’acqua salmastra e l’alba riparte con calma sospinta dal vento che giunge di corsa all’abisso oceanico. (...)
È vero, nella vita tutto scorre come un fiume verso un punto di non ritorno e solo il valore etico ed estetico dell’arte e della parole poetica possono fermare una accadimento, come in un attimo heideggeriano, restituircene il senso.