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Antologia critica di Un bosco nel muro




dal sito Il Bibliomane, 9 febbraio 2014, di Pierfrancesco De Paolis (l'originale è qui)

dal sito Vocidellapiccolaeditoria, 12 novembre 2013, di Luca Ragazzini (l'originale è qui)

nella rivista web Fili d'aquilone, numero 32, ott./dic. 2013, di Marco Testi

nella rivista trimestrale L'Albatros, numero 3, luglio-settembre, di Marco Testi

dal sito CriticaLetteraria, 17 giugno 2013, di Francesca Fiorletta (l'originale è qui)

dal sito Progetto Geum, 14 aprile 2013, di Viviane Ciampi




dal sito Il Bibliomane, 7 febbraio 2014, Pierfrancesco De Paolis     (inizio)

L'AUDACIA DEL RACCONTO

Un bosco nel muro: una raccolta di racconti, una poetica rassegna di esistenze.

Alessio Brandolini, come un novello pittore, dipinge questi tableaux vivants fatti di parole. Il risultato è quello di un susseguirsi di spaccati di esistenze così comuni da diventare esemplari. Egli racconta, infatti, della quotidianità nuda e cruda; una realtà fatta di tradimenti amorosi, amicizie perdute e ritrovate, di sogni infranti. In questo quadro, poi, si affaccia la storia del passato: la guerra dei fucili e degli spari, i conflitti del sangue e della morte.
E noi, come dei bambini che guardano dal buco della serratura, ci immergiamo all’interno di questi piccoli mondi, brevi ma allo stesso tempo intensi. La fugacità della vita, i capricci del caso e la labilità delle emozioni: questi racconti ci ricordano quanto siamo fragilmente umani. E proprio per questo riusciamo a immedesimarci con i vari personaggi, anche se di loro sappiamo così poco. Insieme a loro affrontiamo le piccole incomprensioni dell’esistenza, spesso senza riuscire a scioglierle, ma imparando ad accettarle per come sono. Quello che ne trapela è un tenue sentore di amarezza e di rimpianto: la strada che percorriamo ci può sembrare quella giusta ma il più delle volte non è così, perché c’è sempre qualcosa da perdere.
A rendere tutto più fruibile interviene poi lo stile dell’autore. Mediante una scrittura lapidaria e veloce veniamo trascinati dalla lettura, arrivando tutto d’un fiato al punto finale. L’autore, inoltre, riesce sapientemente a giocare con i punti di vista: ai racconti in prima persona si susseguono quelli in terza senza che venga rotto alcun incanto. Il lavoro che egli compie è quello della sottrazione: ne deriva una scrittura asciutta che mira all’essenziale, adattissima alla forma del racconto. E nonostante la frammentazione dell’opera si ha comunque l’impressione che esista un tenue filo rosso che unisce tutti i diversi racconti.
E questo non deve essere sottovalutato: la scelta della forma-racconto risulta azzeccata anche se audace. Scrivere racconti, infatti, è ai giorni nostri, qualcosa di coraggioso. Il pubblico pigro si è da tempo affezionato al romanzo, considerandolo più di intrattenimento. Da questo punto di vista il racconto risulta oltraggiato. Ci si scorda troppo spesso, infatti, quanto questo sia importante per la nostra letteratura e cultura: Boccaccio e Pirandello insegnano. Inoltre nei racconti la linea di demarcazione tra la prosaicità e la poesia è molto diluita.
Ed è quello che avviene in Un bosco nel muro: la liricità della normalità che riesce a coinvolgere. 1 a 0 per il racconto dunque!




dal sito Vocidellapiccolaeditoria, 12 novembre 2013, Luca Ragazzini     (inizio)

"Un bosco nel muro" di Alessio Brandolini

Un bosco nel muro è una raccolta di racconti brevi pubblicata dalle Edizioni Empiria di Roma nel 2013 e che, fin dalle prime pagine, si fa notare per l’accurata selezione delle parole, tipica di quegli autori che si cimentano anche con la poesia. È un libro descrittivo, narrato a voce bassa, con lo sguardo rivolto soprattutto al passato, non tanto per interrogarlo o per rivelarne misteriose verità, quanto piuttosto per esaminarne ciò che, di volta in volta, ci lascia in eredità. Le varie storie passano in rassegna le infinite possibilità di relazione che le persone intessono tra loro (o con se stesse), fino a far emergere un complesso lavoro di ricucitura di tutto ciò che di rilevante può esserci nella vita. Si parla dell’amore, dell’amicizia, della guerra, della solitudine, dell’infanzia, a volte con ingegnosi espedienti narrativi, a volte avendo il coraggio di non far succedere niente, proprio come spesso avviene nella realtà. E, come succede con tutti i buoni libri di questo tipo, quando si arriva alla fine e si riosserva il mondo, si prova la sensazione di saperne qualcosa in più.




nella rivista web Fili d'aquilone, numero 32, ott./dic. 2013, di Marco Testi     (inizio)

RACCONTARE LA BELVA D'OCCIDENTE
Sul libro di racconti di Alessio Brandolini Un bosco nel muro




nella rivista trimestrale L'Albatros, numero 3, luglio-settembre, di Marco Testi     (inizio)

DALLA PARTE DELLE RADICI

I racconti di Brandolini affrontano le radici ultime della nostra esistenza quotidiana

Chi dovesse concepire quotidianità e banalità come un’unica dimensione dovrebbe leggere questo Un bosco nel muro (Empirìa 2013, pag. 141, 15 euro) nuova raccolta di racconti di Alessio Brandolini, che segue di tre anni le poesie di Il fiume nel mare. Qui siamo in una dimensione congeniale al respiro narrativo del fondatore della casa editrice Fili d’Aquilone, fatto di una breve scansione di momenti della giornata o di stati mentali, spesso apparentemente anodina e tutta tesa alla risoluzione ad alta fedeltà. Se non che la scrittura rivela presto la sua necessità, che è anche il suo punto di forza: sondare le zone psichiche non praticate in genere dalla narrativa. La sua ricognizione è però del tipo assai diverso da quello latamente psicologica e analitica di chi si affaccia sullo spirito umano con gli strumenti della ricerca post-freudiana e con quelli della analisi tout-court, in linea con la sua precedente produzione narrativa, che affronta l’esistenza dalla parte delle radici, dell’accadimento puro, senza commenti implicanti il giudizio autoriale.

Da questi racconti emerge con forza un punto di vista particolare, e non potrebbe non essere così, visto che ogni atto è di per sé espressione prospettica, ma questo punto è volutamente sterilizzato da ogni surplus ideologico e interpretativo. L’antica ànanke greca diviene qui la pura necessità, il puro e semplice accadimento, o lo sprofondamento nella mente del personaggio senza commenti o interpretazioni. In alcuni casi questo radicamento della scrittura nel semplice accadere accoglie il non interpretabile della ratio d’occidente, ciò che siamo stati riabituati, dopo il tentativo del suo recupero in chiave terapeutica a guardare come altro, se non come – di nuovo – patologico.
La follia o presunta tale di alcuni meandri affrontati da Brandolini non è mai nominata, scontata l’opacità di ogni parola, ma rappresentata quasi algidamente: «Allora cerco il male nei buchi della carne, entro con le dita e strappo. Lo immagino come un folletto. Lo tiro fuori per le orecchie, è ripugnante, ma prima di farlo a pezzi ci parlo, lo prendo in giro così da alleviare la solitudine». È la presa diretta di un pensiero divenuto norma, compagnia, resistenza all’angoscia e al male di vivere post-montaliano.

Gli elementi che emergono da questa anatomia inclemente ma neanche cinica sono quelli comuni: la solitudine, che è assunta a livelli non unicamente metropolitani, ma più generali, in quanto minaccia la condizione umana con le sue mille occasioni; l’indifferenza del mondo e delle cose, che sembra contaminare ciò che ci attenderemmo non essere cosa: il pensiero, l’amore, gli affetti; l’accettazione dei nuovi confini, legati ad una diversa configurazione della vecchiaia o della dipendenza, ad esempio, perché ormai agganciate al discorso della compagnia a pagamento che può diventare dipendenza ma anche – per opposizione – una nuova forma di affettività, e qui ci colleghiamo di nuovo al discorso della solitudine: il fenomeno dell’immaginazione, che presenta inquietudini per i nuovi rapporti che si vengono a creare, alcuni fondati sull’interesse, altri su elementi di più profonda natura, apre a nuovi scenari non necessariamente apocalittici, perché alcune solitudini una volta “incurabili” ora sembrano avere scampo: «Quando la domenica pomeriggio ce ne andiamo a Villa Celimontana lei mi sta accanto, spalla a spalla e ogni tanto sussurra delle frasi, nel suo italiano povero e stentato. Ci teniamo per mano e ce ne stiamo calmi e sicuri: due fragili rocce che si scaldano al sole».
La capacità di raccontare gli elementi della vita quotidiana, senza smembrarli in una analisi che li devitalizzerebbe, è tipica di Brandolini: i suoi narratori sono sonde profonde, mute e a tutta prima inerti, dei movimenti e delle staticità, della incomprensibilità inenarrabile di certe, se non tutte, esistenze.

Gli abissi lontani dal senso sono in territorio preferito da questa narrativa, che talvolta allunga talmente il suo raggio visivo da cogliere movimenti ulteriori, che sembravano fuori dal suo campo, come in un racconto paradigmatico di questa apparente a-semanticità delle parole, L’intruso. Ciò che noi chiamiamo depressione con una parola ormai buona per tutte le occasioni, è un motivo assai ricorrente in questi racconti, ma qui Brandolini naviga in territori non attraversabili dalla logica post-settecentesca o dalle pretese (para)scientifiche dell’analisi psichica. Una donna si getta dalla finestra dopo segnali evidenti di disagio interiore. Certamente depressione, o solitudine, o incapacità di affrontare la vita, certo. Per chi vuole spiegare. Ma la voce narrativa di questo racconto dice altro, perché il narratore dentro la storia ha un sussulto quando parla per l’ultima volta con l’amica. La belva primigenia, forse, o il nemico del titolo, l’avversario biblico, sembrano emergere dal sottofondo tellurico celato – ora non più – dallo sguardo: «Le sorrisi e nel suo sguardo mi sembrò di vedere una belva che mi osservava: i suoi occhi infiammati mi urlarono di togliermi di mezzo, di lasciare Carla ai suoi artigli».

Per chi conosce l’estrema razionalità del percorso artistico e intellettuale dell’autore, questo episodio è sorprendente, in quanto rivela nuove dimensioni non dico interpretative, perché significherebbe forzare la narrativa di Brandolini, ma narrative. Nel senso che la scrittura non abbandona lo stato zero denotativo, ma allarga i suoi confini, guarda dove le è consentito, ma soprattutto, si pone mimeticamente dalla parte dell’osservatore narrato. Non nel senso verista del porre l’intellettuale dalla parte dei soggetti narrati lasciando distinti i due piani, ma abbandonando completamente il faro ideologico che orienta la narrazione e il suo punto di vista, per cedere alle sirene del radicalmente altro. La mimesi narrativa qui giunge in zone fuori dalle rotte più frequentate, per avviarsi verso altri luoghi, che nascondono insidie e possibili aporie: deve il narratore tenere ferma la propria statuaria identità, se pure ne esiste una dopo Pirandello, o può cedere al demone dell’altro, dell’abbandono elementare del sé per affidarsi, costi quel che costi, ad un altro e talvolta opposto punta di vista? Mai come in questo racconto questa aporia si era rivelata in tutta la sua irrequieta ambiguità. La narrazione sembra completamente divorata dall’altro, non più dal narratore per statuto; la voce delegata dall’autore che un tempo si sarebbe detto empirico, o per lo meno voce delle implicazioni ideologiche – latu senso – autoriali è assorbita radicalmente da un altro punto di vista: questa transizione inquietante è avvenuta senza nessuna mediazione esplicitata, senza l’uso di calchi linguistici che in qualche modo denunciassero un trasferimento da un soggetto narrante ad un’altra voce. Qui assistiamo ad una presenza altra, quella del personaggio-narratore che a sua volta allude ad una terza presenza, quella indicibile, perché non nominabile se non con i vari vocabolari terapeutici – o supposti tali – dell’Ovest raziocinante. «Mi spaventai. Quel fuoco era un blocco di ghiaccio indecifrabile»: è la frase che enuncia la mancanza di mediazioni, la consapevolezza nel personaggio narrante della presenza dell’inspiegabile. La voce del narratore portavoce dell’autore sparisce per lasciare il posto non solo ad un’altra enunciazione, ma ad un altro punto di vista, totalmente altro, senza più alcuna mediazione. La metafora narrativa è arrivata qui al suo punto limite e, come nel procedimento metaforico, non solo il “come” che teneva ancora distinti i due elementi viene cancellato, ma viene rimossa anche l’identità dei due termini. Il secondo ha preso il posto del primo, la voce narrante altra, quella che avrebbe dovuto essere parte della strategia della finzione consapevole, di un universo di secondo grado, si è insediata al posto della prima ed enuncia come prima fonte di significato. Una donna è resa inquieta dall’emersione per un attimo di un altro che non si può nominare se non con la strategia retorica della belva nascosta nell’essere, ma quella parola, l’altro, è ancora più significante della fiera dantesca, che pure rimandava anch’essa alle radici elementari dell’esistere qui e ora. Quell’altro ha divorato la sua amica e per un attimo ha lasciato intravedere ciò che non deve essere visto, perché vicino terribilmente al rimosso d’occidente.

Questi racconti rappresentano uno dei pochi tentativi d’oggi di arrivare in territori non leciti ad una narrazione bastata sulla ratio cartesiana. Se si potesse fare una approssimativa e fatalmente monca allusione, si potrebbe riandare unicamente ai territori irrazionali e spesso bollati come pre-totalitari dei visionari tardo romantici e allo Xavier de Maistre che allude nel Viaggio attorno alla mia camera alla “mia bestia”, che chiama altrimenti “l’altro”, la quale “sa fare il caffè a meraviglia, e molto spesso se lo beve pure, senza che se ne impicci la mia anima”. De Maistre, prima di Freud e di Dostoevskij, era apparentemente riuscito a metterla a distanza di sicurezza da sé, nominandola e perciò stanandola, esorcizzandola con il pensiero totemico della donna amata, affaccendato in schemi di guerra e duelli. Ma già nel nostro Novecento (quello di scrittori con i quali non è lecito fare alcun paragone con il Nostro) la bestia, il nemico, l’altro riemergeva dalle paludi del non-cancellato con le presenza inquietanti che si aggirano nelle pagine di Landolfi o nelle improvvise, epilettiche ed enigmatiche accensioni di violenza nelle strade della Siena di Tozzi.




dal sito CriticaLetteraria, 17 giugno 2013, di Francesca Fiorletta     (inizio)

Un addio, una sfida

Leggo Un bosco nel muro di Alessio Brandolini, edito quest'anno nella collana Euforbia delle Edizioni Empiria, e subito mi vengono alla mente certi echi della ben nota école du regard francese.
Questo è un libro costruito quasi esclusivamente per visioni, composto da una miriade di micro racconti, frammentati e disarmonici, che non concorrono ad alcun reale svelamento, invero, non hanno valore, a mio dire, di semini gettati appositamente dietro le spalle allo scopo di orientarsi lungo un sentiero organico e predefinito, ma piuttosto assumono un valore pressoché assoluto, proprio come spari nel buio di un'estrema lucidità e precisione.
Dunque non simboli, non pretesti ma testi, composti tutti da polifoniche immagini nude e crude, sguardi e dettagli di puro senso, etico e estetico, tout court.
C'è il professore di fisica e l'uomo dalla lingua enorme, ci sono i viaggi e i ricordi, gli angeli e le trote, e c'è, ad aleggiare su tutti, un continuo, imperterrito sentore di finitudine, che, a ben guardare, non è proprio solo un sentore: è più una certezza, lampante e fulminea, ossessiva e ricorsiva, battente fino al punto estremo di esplosione, sia per i personaggi che per gli stessi lettori.
L'esplosione, dunque, nel dettato narrativo, è sempre una frattura forte, c'è sempre un commiato, provvisorio o definitivo, c'è sempre e comunque un rapido, inaspettato e altrettanto doloroso allontanamento.
È esattamente a questo punto che la scrittura di Brandolini ci sorprende: non è laconica, non calca la mano sui toni drammatici, non esaspera la sofferenza, il disagio di una scelta spesso fatale.
È esattamente a questo punto, dunque, che tutto l'esprit filosofeggiante e ironico di Brandolini raggiunge il suo vertice: esemplare la levità, l'apparente naturalezza, quasi oserei dire l'abbrivio trasandato e noncurante con cui i protagonisti di questi racconti riescono a recidere di netto le loro esistenze, riescono a dire addio, a squarciare un velo, a costruirsi un bosco vitalistico nel piatto e urticante muro dell'esistenza quotidiana.
Questa è la sfida di Brandolini, una sfida intelligente e spericolata, condotta a colpi di vergate fulminanti, ribattuta costantemente tra testo e lettore, tra letteratura e vita.

“Non significa nulla, non lega con le altre parti della storia, che ho già scritto o sono ben delineate nella mia mente. Frasi che devono seguire la prima, l’incipit, come vagoni con la locomotiva. Altrimenti non riuscirò a formare un treno veloce e ben fatto che fili dritto alla meta. Verrà fuori il solito carro sgangherato che si trascinerà avanti barcollando. No, questa volta non l’ascolto.”




dal sito Progetto Geum, 14 aprile 2013, di Viviane Ciampi     (inizio)

Un bosco nel muro, di Alessandro Brandolini

Chi scrive conosce Alessio Brandolini essenzialmente come un autore che ha già alle spalle un cospicuo bagaglio di opere in forma di raccolte poetiche o poemetti veri e propri che non sono mai passati inosservati alla critica attenta. Perché sono così i poeti: talvolta hanno necessità di lasciare più libera la parola, libera e indipendente dai vincoli della poesia. La loro penna si ribella e lascia apparire una storia, poi due, poi magari un romanzo.
È quindi con viva curiosità che accolgo questo “caleidoscopio narrativo” fatto di piccole storie talvolta oniriche, talvolta di realtà quotidiana ovvero di una realtà tra altre realtà forse vissute e rappresentabili dove la vena poetica dello scrittore non sparisce affatto ma si lascia indovinare attraverso le pagine facendosi soltanto più discreta, più appetibile a un lettore attratto dalla narrativa.
Storie semplici, dunque, che avrebbero potuto accadere a chiunque: un incontro dell’allievo con il suo ex professore, un cieco che cade per la strada e ha voglia di raccontarsi a chi gli dà aiuto, il riannodarsi casuale di vecchie amicizie, cene infelici dove nel menù il piatto principale è il mortifero pettegolezzo. Vi sono anche eventi che accadono a un io narrante convinto di udire la voce di Dio nella sua stanza e avanti scorrendo le pagine fino alla vicenda di Giovanna alla prese con l’acquazzone estivo che sbocca con l’epifania d’un raggio di sole sulla Fontana di Trevi.
Ma scrivere – come ben sa Alessio Brandolini – è ben più che raccontare storie, imbastirle, ricamarle come a punto croce: è anche tessere, far scorrere le mappe ondivaghe che contribuiscono alla creazione del ritmo e del movimento, dando un senso alle pagine che mettono in valore il mistero degli esseri, la loro fragilità, il dolore e la bellezza dell’amore e del vivere tra il biancore dei giorni e i morsi del desiderio.
Pur essendo ambientati in gran parte a Roma, i racconti celano un desiderio di viaggio all’interno di sé, una ricerca perigliosa e angosciata con quel gusto irrepressibile di grandi venti sul volto: «Entro nei luoghi dell’infanzia. Mi sento e mi addormento, smaltisco il viaggio e il chilometro a piedi dalla stazione». E ancora: «Ora conosco a fondo la periferia, il suo scheletro deformato ricoperto di ruggine e ammaccature, i devastanti mal di denti. Il suo intestino è un labirinto che di notte si trasforma in un inferno di lucciole».
L’intero corpus dei racconti contiene il vacillare del tutto attorno al niente, l’avvicinarsi dell’impalpabile fruscio della morte, l’irrompere dell’inquietudine in mezzo a ciò che potrebbe sembrare la banalità delle situazioni. Non una parola più alta dell’altra, in dialoghi per lo più asciutti. Vi è quasi un avanzare con precauzione, un soffermarsi a tratti, un catturare bagliori di realtà che non escludono soprassalti d’ironia: «Alberto spiega la complessa ramificazione delle sue corna».
Ricordate la canzone di Gaber che recitava «quasi quasi mi faccio uno sciampo»? Ecco, è questo lo spirito. Si osserva la pioggia al rallentatore, gli occhi si fissano sul muro; un muro come schermo che potrebbe nascondere chissà quali altre vicende. Forse siamo nel pieno di ciò che si chiama “la prosa di vivere”.

Alessio Brandolini, Un bosco nel muro, Edizioni Empiria, Roma 2013, pagg. 141, euro 15




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