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SENZA FERMARSI Parole dal viaggio a cura di Fabio Pierangeli Azimut, Roma, 2008 |
Tronchi di palude
1
Tornerò un giorno a dipingere? Sdraiato sul letto provo a mettermi in contatto, passando con lo sguardo attraverso la finestra spalancata, con una striscia d’orizzonte grande quanto un biliardo. Un potente motoscafo sfreccia come una palla impazzita su quel tappeto blu-argento. Lascia un segno misterioso, una virgola, un punto interrogativo abbattuto dall’inconsistenza, un tappeto di schiuma tremula e ondeggiante sul quale vorrei poter camminare. Per raggiungerti e non lasciarti mai più. Noi due, insieme: sarebbe una gran bella cosa, non credi? Con me porterei, giuro, delle tele bianche candide come la neve e il petto delle rondini. E pennelli, matite, gessetti, i tubetti da spremere dei colori a olio. L’impietoso occhio del sole seguita a cercarmi, mi tortura con la sua luce accecante. Una spia che scruta nell’animo alla ricerca di qualcosa che forse non mi appartiene ormai da un bel pezzo. Mi alzo: chiudo le imposte e la tenda fiorata. Finalmente l’oscurità silenziosa riempie la stanza. Sì, non ho proprio voglia di partecipare a questi giochi di luce di cui non conosco le regole e che quindi con facilità mi sconfiggono. Ma ecco che alcuni raggi ostinati, sottili come laser, filtrano attraverso le fessure e mi colpiscono sulle braccia, in pieno volto, sotto l’occhio sinistro: bucano il sottile strato di pelle, entrano nelle vene e spavaldamente prendono a caracollare nel sangue fino a surriscaldarlo. Raggi attirati, probabilmente, da un residuo di forza, di calore, di quel poco che mi è rimasto dopo lo sfortunato viaggio ai tropici. Ne sono ancora così fortemente turbato da non riuscire a combinare nulla di buono. Nemmeno uno scarabocchio a matita, un appunto diaristico, una poesia, un breve racconto. Mi sforzo, ma proprio non riesco a trovare il coraggio necessario per riprendere a dipingere. E ad amarti come vorrei. Sudo, smanio, per la quinta volta mi alzo dal letto. Riapro la tenda, spalanco di nuovo la finestra. Un po’ stanco, esaurito. Sì, parecchio agitato. Per fortuna la luminosità accecante delle prime ore del giorno va disperdendosi e fra non molto il sole diverrà un torlo d’uovo sbattuto nell’inchiostro. Mi viene da pensare, ed è come infilare un dito nella piaga, che non mi dispiacerebbe affatto trasformarmi in liquido nero. Per poi scorrere via, confondermi con il buio. Cancellarmi dalla faccia della terra e rinunciare per sempre al mistero della vita, alla bellezza dei colori. Lo scroscio freddo della doccia disperde la temperatura eccessiva del corpo, conservato per te, amore, proiettile penetrato nel cuore, valvola di sicurezza, cacciavite che regola il flusso dei miei eccessi mentali. Sarebbe stato bello utilizzarlo in qualche modo, quell’erotico calore. Sì, metterlo interamente a tua disposizione e baciarti fino a farti impazzire, fino a consumarti labbra e lingua. Invece mi vedo costretto a regalare al nulla questa voglia tremenda di tenerti stretta tra le braccia, di congiungermi a te in profondità. A lungo. Mi raffreddo, ridivento l’uomo di ghiaccio che odia il sole e la sua luce inquietante. Ecco: ora sono un pinguino che s’agita sotto lo spruzzo dell’acqua e sbatte le sue ridicole ali. Notte, come tante altre notti.
Nel grande cortile dell’albergo un’anziana e distinta signora con in testa un piccolo cappello verde mi fa uno stentato sorriso accompagnandolo, però, da un ampio gesto della mano. Per quale motivo? Mi scambia forse per qualcun altro, o sono io a non riconoscerla? Negli ultimi tempi, è vero, sono più che distratto. Faccio fatica a tenere in ordine la processione inarrestabile dei ricordi, e delle idee un tempo possedute. Confondo le date, i nomi. In effetti la vecchietta ha nel profilo qualcosa di familiare. Potrebbe essere una parente, magari una zia che mi ha tenuto in braccio da neonato, e io non ho nemmeno risposto al suo saluto! Dovrei correre per raggiungerla, scusarmi per poi chiederle, con la massima gentilezza, di darmi una mano a rinfrescare la memoria. Troppo tardi, con il suo passo traballante, ma regolare, l’anziana signora ha oltrepassato il cancello dell’albergo e ora si avvia verso la strada principale del paese. Giù, al bar, non bevo per dissetarmi ma, come al solito, per stordirmi. Ho voglia di non pensare a nulla. Di sentirmi in sintonia con le cose più semplici e banali della vita, del mondo, delle relazioni umane. Tanto qui tu non mi controlli, non ci sei, non devo mostrare a nessuno la parte migliore di me stesso. Se veramente esiste, poi, questa “parte migliore di me stesso”. Davvero mi dispiace che tu non possa mai accompagnarmi nelle mie fughe, nei pellegrinaggi, nei miei viaggi in giro per il mondo. Per via della famiglia, dell’uomo con cui vivi che pur sapendo di noi non accetterebbe mai un tuo allontanamento da casa, da figli. Per via delle convenzioni (o delle convenienze?) sociali. Soltanto alle tre decido di tornare nella mia tana di lusso, stanza 708. Barcollo, faccio fatica a infilare la chiave nella toppa della serratura. Ho lo stomaco sottosopra, la testa che gira come una trottola impazzita e la sensazione di avere nelle orecchie un nido di vespe inferocite. Provo a dormire, ne ho così bisogno! Stavolta sono convinto di potercela fare. Ora prenderò sonno all’istante, lo sento, e poi sono così sbronzo, così stanco... ma ecco che torna la sensazione delle tue carezze e nelle vene si riaccende il fuoco, mi assale un languore sconvolgente. Uno spasmo violento mi attraversa tutti i muscoli, li percuote e manda in mille pezzi l’immagine sbiadita di un Sé che da mesi, ormai, sta tentando a fatica di rimettersi in sesto. Perché sei così distante da me? Ho bisogno del tuo aiuto, della tua presenza. Teso, più nervoso del solito. Ho la punta della lingua bucata dalle spine e in bocca il sapore della tua saliva. Mette sete, alimenta il desiderio di vivere in maniera completamente diversa, magari in un posto nuovo, che non abbia nulla a che vedere con quelli dove finora ho trascorso la mia vita. Solo tu sai essere dolce e insieme decisa e forte nei sentimenti, nell’amore costante che hai per me. Nonostante le noie che ti procuro, a dispetto delle continue discussioni per la gelosia che a volte mi prende per quell’altra vita che ti ostini a voler portare avanti. E questo mi sconvolge, sì perché vorrei assomigliarti, riuscire ad amare allo stesso modo, e regalarti un minimo di sicurezza. Forse con te vicino potrei riprendere a dipingere. Ti assicuro che non tornerei alle solite nature morte che tu tanto detesti, alle spiagge deserte, alle paludi melmose. Sono convinto che avendoti accanto mi verrebbe voglia di fare dei ritratti. Sì: volti visi musi facce. Di gente anziana, giovane, di bambini. Che camminano per strada, corrono, che s’abbracciano, parlano, si baciano, litigano, si salutano. Voglio dipingere anche gli interni delle loro case. I bagni, i letti, le sedie, i pettini, gli occhiali, gli spazzolini dei denti, le posate, gli orologi, i vestiti, le scrivanie, i giochi, i mobili, i libri, l’arredo... persino i quadri appesi alle pareti. Ma l’equilibrio psichico - già in bilico da un bel pezzo - prende a rotolare come un forsennato giù dal precipizio e all’improvviso scoppio in un pianto dirotto. Sbatto la testa contro le pareti e per sfogarmi ululo come un lupo mannaro. Mi strappo quei pochi capelli che mi restano in testa, con le unghie spezzate mi graffio il volto. Ecco, ormai non prenderò sonno, ne sono più che convinto. Me ne starò sveglio tutta la notte a tormentarmi. Mi morderò le braccia, consumerò gli occhi cercandomi nel buio, spezzerò le corde vocali con gemiti spaventosi. Allora mi butto giù dal letto, corro in bagno a pisciare con rabbia. Spalanco la finestra, faccio un lungo titubante respiro. Notte, come tante altre notti.
Della scia del veloce motoscafo non rimane la benché minima traccia. Provo a ripensarla ad occhi spalancati e non ci riesco. Invece di quel tappeto di morbida schiuma appare uno sgorbio indecifrabile, un segno nero che si sovrappone al buio scintillante, per via dei raggi lunari, della superficie marina. Socchiudo gli occhi e cerco di mettermi in contatto con te per via telepatica. Per dirti che ti desidero, che ho un gran bisogno della tua presenza, delle tue parole, delle tue carezze. Sono disperato perché non riesco a trovarti, né a sentirti. I cerchi dei desideri repressi si restringono fino a soffocare la voglia, tremenda, d’abbandonarsi a un sonno tutto per intero. Mi piacerebbe toccarti, entrare in te cento volte di seguito e nel frattempo sussurrarti frasi oscene. Trarrei conforto e sollievo dalla tua presenza, dal tuo corpo, dal tuo respiro calmo e regolare, dai fremiti delle tue lunghe ciglia. Salto giù dal letto ed esco fuori, sul piccolo balcone. Frugo nelle tasche delle stelle, trovo spine e spilli che pungono. Però, finalmente, avverto un minimo di sollievo. Mi protendo fuori dalla trappola nella quale mi sono autorecluso, mi spalanco all’enorme spazio che mi sovrasta. Parto spedito per un viaggio in astronave e mi ritrovo di fronte a migliaia di possibili direzioni. Una vale l’altra? Mi butto a razzo privo del senso d’orientamento. Vago nell’universo e le strade seguitano a moltiplicarsi, diventano più larghe, più luminose. Perdendomi nell’infinito ritrovo qualche frammento di me stesso, provo a incollare i cocci. Esausto torno a stendermi nel letto e, inaspettatamente, all’istante crollo nel sonno. Ma le nitide immagini di un anno fa, di quella tragica vacanza tropicale finita in modo così brusco, con quasi due settimane d’anticipo, mi assalgono di nuovo, come un’onda che riempie la mente. Ormai sono diventate un incubo costante, il mio quotidiano tormento.
2
Spudoratamente felice, come non ero mai stato prima d’allora. In una piccola isola tropicale agognata per anni, per decenni, sperduta in mezzo all’oceano. Lì avevo affittato una capanna confortevole, e mi ci ero chiuso dentro per stare tranquillo a esplodere di gioia, a dipingere a tutto spiano. La spesa totale per il soggiorno e il viaggio, poi, nemmeno tanto cara, visto il periodo da me scelto classificato di “bassa stagione”. Col passare dei giorni i quadri si moltiplicano e mutano i soggetti, le forme, i colori. Le idee si fanno veloci e incontenibili, sempre più effervescenti, originali. Soddisfatto dunque, ma non sazio. Con la voglia di proseguire, di godermela fino in fondo. Cinque settimane da vivere in santa pace, tutte per me, non mi sembrava vero. Sull’isoletta siamo solo in tre e ci stiamo senza darci reciprocamente fastidio. Ognuno per conto proprio, ben distanziati l’uno dall’altro. Sono il più giovane del terzetto e questo, non saprei dire per quale spinta inconscia, mi rende nervoso, mi fa sentire vulnerabile. Ogni volta che esco indosso occhiali da sole molto scuri e quell’ampio cappello di paglia che mi avevi regalato all’aeroporto al momento della partenza. Esploro l’isola, esplorata chissà già quante volte da solitari ed estroversi esploratori. Simili a me, forse addirittura meno coraggiosi. Faccio finta d’essere il primo che mette piede da quelle parti e mi ferisco le mani per arrampicarmi sulla roccia. Raggiungo il punto più alto, la vetta, e felice mi godo il panorama. Fumo la pipa rilassato dinanzi alla maestosità dell’oceano. L’azzurro infinito fa da silenzioso frullatore: taglia e spappola per bene ogni malvagio pensiero. Respiro a pieni polmoni l’aria balsamica e mi sento sano, forte, pronto ad affrontare altre fatiche, altri viaggi, altre mille avventure e contavo su di te per avere la spinta necessaria a raggiungere cime ancora più alte. E quanti bagni, quanti tuffi in quell’acqua miracolosa! Per ore sotto il sole, immobile come una lucertola. In spiaggia mi diverto a scavare buche nella sabbia calda e morbida come le zone più intime del tuo corpo. Ogni tanto scambio qualche parola con gli uccelli, con i pesci variopinti e guizzanti: li sento amici, fratelli. In una scatola di metallo metto da parte i sassi e le conchiglie più belle con l’intenzione di regalartele al ritorno. Se m’imbatto in uno degli altri due vacanzieri - e la cosa di solito accade in tarda mattinata o nel primo pomeriggio - faccio giusto un saluto, un mezzo sbrigativo sorriso, magari solo un cenno con la testa per poi tirare dritto con lo sguardo basso, accelerando l’andatura. Mi tengo alla larga dai loro percorsi anche se i miei vicini non sono affatto antipatici. Anzi, probabilmente non siamo tanto diversi l’uno dall’altro, considerando la comune scelta di starsene lì, su quell’isola, da soli, lontani dalla marmaglia e dal mondo eccessivamente civilizzato. In silenzio, in raccoglimento. Però preferisco non dare confidenza a nessuno e vivere per conto mio. Passo il tempo a dipingere, a riflettere, a misurare lo spessore, ad analizzare tutti i risvolti e le pieghe di quella sconfinata, operosa solitudine. Il bianco traghetto che provvede ai necessari contatti tra la direzione e le diverse isole sulle quali si estende il villaggio turistico arriva regolarmente ogni domenica mattina alle dieci in punto. Il comandante è un tipo alto e di carnagione scura. Non scende mai a terra, non si stacca dal timone nemmeno per un secondo. Lo accompagnano rudi marinai che scaricano in fretta la merce sul molo, quella relativa al “tutto compreso” e quella ordinata “a parte” da ogni singolo villeggiante. Fanno tre mucchi, mostrano le ricevute, i conti, sottopongono il tutto alla nostra visione, alla firma di avvenuta consegna, prendono nota delle nuove ordinazioni e ripartono senza spendere una parola di troppo. Un’isola di 4,7 chilometri quadrati a mia disposizione. Per godermela a fondo per più di un mese. Certo non posso negare che sentivo la tua mancanza. Non più di tanto però, preso com’ero a far emergere gli istinti primordiali che fin dalla nascita tenevo imprigionati all’interno. Mi divertivo a farli saltar fuori uno alla volta per poi lasciarli correre liberi e nudi come gioiosi fanciulli sulla sabbia bollente. Dopo una settimana mi ritrovo perfettamente abbronzato, i capelli schiariti: calmo, davvero felice. Ero riuscito, senza troppa fatica, a ritrovare le motivazioni giuste per pensare, per dipingere e quanti e che grandiosi progetti straripavano in continuazione dalla mente. Il primo sussulto arrivò all’improvviso preceduto da un cupo boato, una specie di colpo di cannone ed ebbi la strana sensazione che il suolo si fosse sollevato di qualche centimetro. Me ne stavo seduto davanti alla mia capanna tutto preso a ritoccare l’ultimo lavoro con della terra color sangue, molto fina, trovata per caso al centro dell’isola, vicino a una piccola grotta. Cospargevo granelli di polvere sulla tela ancora fresca e li schiacciavo con le dita per farli aderire bene. L’intenzione era quella di dare al dipinto un aspetto ruvido e grumoso, come a voler simboleggiare la scia di paura che ciascuno di noi si porta dietro fin dalla nascita. Un paesaggio minaccioso, quindi, dai contorni sfrangiati e scuri, ma dalle immagini dense, corpose. Il secondo, più che un sussulto un vero e proprio scossone, arrivò due ore più tardi, proprio nell’istante in cui siglavo quell’ultimo lavoro che avevo intitolato “Tronchi di palude”. Ero convinto che quella tela, così diversa dalle altre, avrebbe segnato una svolta decisiva nella mia carriera artistica. Per giorni mi ci ero impegnato a fondo e finalmente, con gioia, potevo metterla ad asciugare. Però quella scossa mi era rimasta dentro e la sentivo ancora vibrare nell’aria. Turbato nel profondo, con addosso uno strano terrore. Ossa, muscoli e nervi vibravano ancora intensamente. Nelle orecchie mi rimbombava un fischio acuto e lì, di treni, certo non ne passavano. Beh, fu questione di un attimo, non più di tre secondi. Sì, una decisione presa d’impulso, afferrata al volo, per il collo. Infilai in tasca gli occhiali da vista, il portafoglio con i soldi e i documenti, misi a tracolla la borraccia piena d’acqua e mi scaraventai verso la spiaggia senza pensarci due volte. Avevo addosso la sensazione, netta e catastrofica, che presto di quella piccola isola così lussureggiante sarebbe rimasta ben poca cosa. Spinsi in acqua la canoa che mi era stata assegnata dal responsabile degli sport acquatici, ci saltai sopra e all’istante cominciai a remare con tutta la forza che avevo in corpo. Feci appena in tempo ad allontanarmi di un paio di miglia che una tremenda esplosione spezzò il silenzio, un’onda ribaltò la canoa e giusto un attimo dopo quello spicchio d’oceano affamato ingoiò l’isola tropicale nella quale stavo trascorrendo le vacanze più belle della mia vita. Con sopra la mia capanna. E nella capanna i miei quadri nuovi. Quelli finiti e quelli ancora in lavorazione. Le montagne di abbozzi, gli schizzi, i disegni, i pennelli, i tubetti dei colori, i libri, il diario, l’agenda, le poesie scritte al tramonto. Inoltre: le tue preziosissime lettere. Ce n’era una, se non sbaglio datata venti ottobre, alla quale tenevo in modo particolare. Conteneva alcune frasi sull’amore e sull’intimità di coppia così belle, così incisive che contavo di rileggermele almeno una volta al giorno. Come una medicina per il cuore, per la mente. Per raggiungere l’isola principale, quella dove tuttora sono collocati gli uffici della direzione e la parte centrale del villaggio con la gran massa dei turisti, remai l’intera notte sotto un cielo quasi privo di stelle e senza mai fermarmi. Con addosso la paura di non farcela, di sbagliare direzione, d’essere colto da una tempesta, di rovesciarmi con la canoa e affogare dopo una lunga e disperata nuotata o, peggio ancora, di finire straziato dai denti aguzzi d’uno squalo.
Degli altri due ospiti dell’isola sprofondata negli abissi non si trovò traccia, niente di niente. Scomparsi per sempre nel ventre oceanico, probabilmente non fecero nemmeno in tempo a rendersene conto.
3
Mi sveglio alle cinque del mattino madido di sudore, la bocca impastata, la gola asciutta, la lingua gonfia e amara. In bagno bevo attaccandomi al rubinetto, mi lavo i denti con rabbia, mi sbatto in abbondanza acqua fredda sugli occhi, sulla faccia, a lungo la lascio scorrere sulle mani, sui polsi, sulle braccia. L’incubo ormai si ripete regolarmente tutte le notti e poi, al risveglio, fanno seguito gli inutili e tortuosi pensieri alimentati dalla solita assillante domanda: tornerò un giorno a dipingere? È un anno ormai che non tocco un gessetto, un pennello, una matita, che non spremo un tubetto. Anche questa volta con me non ho portato nulla, tanto sarebbe stato inutile. Mi piacerebbe dormire quindici ore di seguito. Sono convinto che solo così potrei recuperare quel minimo di coraggio indispensabile per ricominciare a vivere in modo dignitoso. Stendere i nervi. Accarezzarli fino ad appiattirli, trasformarli in una tavola stretta e sottile sulla quale lasciarsi andare a una serenità sconosciuta. Spingersi ben oltre questo angusto passaggio, al di là del deserto a forma d’imbuto dove ogni giorno mi perdo, mi confondo. Per poi immettersi in un lago alpino d’un blu profondo e puro come i tuoi occhi. Giuro che all’istante tornerei ad essere me stesso, mi immergerei nei sogni e al risveglio li farei ancora più intensi ritoccandoli con colori brillanti. Domani a mezzogiorno però ti telefono, o forse ti scrivo. Ho tante cose da raccontarti.
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