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I Racconti di Sabaudia
Antologia di racconti
a cura di Maria Costici
Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2004


 
L'amore non è mai inutile
 

Per pronunciare le sue frasi tronche socchiudeva appena la bocca e lasciava venir fuori un sussurro di cinque, al massimo sette parole, sempre difficili da capire. Poi si bloccava, faceva un lunga pausa, come se dovesse riprendere fiato o pescare i vocaboli in un pozzo profondo. Però mi piaceva lo stesso ascoltarla, per via della voce bassa, quasi roca, suadente quando le brevi frasi srotolavano esitanti sulle sue labbra.
       È buffo, lo so, ma davvero facemmo amicizia dentro il cimitero monumentale del Verano dopo esserci osservati a lungo, per mesi, ciascuno stando davanti alla tomba che s'andava a visitare. Arrivava sempre prima di me e la spiavo mentre cambiava i fiori, lucidava la lapide e la foto del "caro defunto" o se ne stava raccolta in preghiera, talvolta anche in ginocchio. Sotto il sole o l'ombrello, se pioveva. Lì dentro ci trascorreva intere mattinate.
       Quel giorno di fine luglio mi spostai lentamente dalla mia alla sua tomba e la salutai. Poi uscimmo assieme dal cimitero parlando dei propri morti, del dolore, del tempo trascorso dal giorno del decesso. Entrammo nel fresco del chiostro della basilica di san Lorenzo, attigua all'ingresso principale del cimitero. Un giovane frate con una barba lunga e rada ci sorrise quando gli chiedemmo se potevamo sederci. "È un posto così bello e fresco, vero?", ci rispose con appena un accenno di malizia prima di correre dietro a una donna che si muoveva a scatti e urlava parolacce e frasi sconnesse. Non doveva essere vecchia eppure lo sembrava, sporca e malvestita com'era, con in testa un'enorme massa di capelli arruffati che le scendevano sul viso nascondendone una buona parte. La barbona aveva lo sguardo duro e così infuriato da spargere terrore intorno a sé. "Scusate", disse il giovane frate, "quella è completamente fuori di testa, la conosco bene, e se non la prendo mi combina un guaio!".
       Da un anno e mezzo Dora aveva perso il marito per un carcinoma ai polmoni. Il calvario era avvenuto nel vicino ospedale "Regina Elena", da poco trasferito a Mostacciano, anche se nell'antica struttura sono rimasti attivi i bunker per la radio e la cobalto terapia. La donna mi raccontò dell'intervento, delle angosciose cure chemioterapiche, della seconda e devastante operazione, dell'inutile e lunga radioterapia. Ci mise dei giorni a raccontarmi tutto, a rilento e a fatica, fino al funerale del marito con i suoi cinque fratelli venuti dalla Puglia e da Torino.
       Poi mi parlò anche dei figli, Enzo e Mauro, che da parecchio tempo vivevano per conto loro. Il più grande si era trasferito a Sabaudia, in un bel villino con tanti fiori e il mare così vicino che lo si raggiunge in bici. Era sposato e aveva una bambina bellissima di sei anni, Letizia. L'altro, il più piccolo, viveva in un grande e nuovo appartamento ai Colli Portuensi, molto distante da casa sua. Faceva il rappresentante di piccoli elettrodomestici, guadagnava molto, sì, ma stava sempre in giro in macchina per mezza Italia, forse per questo da un po' di tempo era molto nervoso e soffriva di gastrite.
       Solo di rado riusciva a incontrarsi con i figli: "Sai com'è, hanno sempre così tanto da fare".
       Mi conturbavano i suoi occhi scuri, lo sguardo spento e calmo di chi non s'aspetta più nulla dalla vita. Le parlavo della mia infanzia, del paese dove avevo vissuto per vent'anni, del lavoro, e anche di mia moglie deceduta per un banale incidente domestico: una scivolata sul pavimento ben cerato ed ecco che sbatte la testa contro lo spigolo d'un mobile. La ritrovai morta una sera di settembre tornando dal turno serale. Avevo suonato e lei non era venuta ad aprire. Mentre cercavo le chiavi mi ero preoccupato, sì, però ero convinto di trovarla distesa nel letto con un braccio sulla fronte, distrutta da uno dei frequenti mal di testa. Invece la vidi sul pavimento della sala da pranzo accerchiata da una striscia di sangue scuro. Gli occhi spalancati, dritti al soffitto. Immobile e rigida, andata via già da un pezzo.
       Stavo davanti a Dora, quasi la sfioravo con tutto il corpo, eppure per lei era come se non ci fossi. Ascoltava quello che le dicevo, certo, ma rimaneva assorta nei suoi pensieri, con la mente persa chissà dove. Non mi interrompeva mai, non faceva domande e poi, alla fine del mio racconto, solo dopo un lungo silenzio riusciva a pronunciare qualche frase, le sue solite frasi mozze sempre difficili da comprendere.
       Mi chiese se avevo dei figli. Non ne ho, le risposi, purtroppo non sono venuti. Mi chiese se lavoravo. No, per fortuna sono in pensione. Sì, da quindici mesi. Ho lavorato per trentasei anni di seguito - e da quando ne avevo diciotto - nell'azienda dei trasporti di Roma, per questo ho potuto lasciare il lavoro presto, a cinquantaquattro anni.
       Di rado prendeva a parlare di sua iniziativa, e quando lo faceva sembrava colloquiare con se stessa. La sua voce arrochita era appena percettibile o forse sono io che, avvicinandomi ai sessanta, comincio a non sentirci più come una volta.
       Dora raccontava vecchi episodi, saltando però alcuni passaggi e io, alla fine, non ci capivo più nulla. Qualche volta l'interrompevo per chiedere spiegazioni, per capire bene. A un certo punto decisi di non domandarle più nulla perché mi resi conto che le mie interruzioni la mettevano in crisi, tanto che poi faceva fatica a ripartire e scivolava in un lungo e imbarazzante silenzio. Allora la lasciavo parlare a ruota libera e sentivo che questo la faceva star meglio, era come se dentro le si sciogliesse qualcosa di rigido e ingombrante.
       A casa, nelle lunghe ore di solitudine, tentavo di mettere assieme i pezzi della vita della mia amica in base alle sue stentate rivelazioni. Però mancavano troppi tasselli per completare il quadro. Riuscivo a visualizzare dei punti, dei passaggi, figure dai contorni sfumati, scene confuse che potevano dire tutto e niente. Desideri e frammenti di vita vissuta, tagli profondi e schegge d'emozioni non erano sufficienti a ricostruire in modo nitido il suo passato. Era come se al suo interno, alla morte del marito, fosse avvenuta una terribile esplosione. Nella mente della donna c'erano lunghi corridoi bui, labirinti inaccessibili o vorticosi, ampie stanze vuote e gelide, e ovunque cumuli di macerie.
       Sorrido pensando che non volle mai entrare in un bar con me, per fare colazione, o d'estate per bere qualcosa di fresco. Diceva sempre di no: "Non posso, devo scappare a casa e poi non sta bene, non insistere per favore".
       Aveva paura del giudizio degli altri, d'essere vista in giro con me. Quando ci salutavamo non voleva mai fissare il giorno e l'ora in cui ci saremmo rivisti. Lei desiderava incontrarmi, sì, ma come per caso, come se fosse un fatto poco importante.
       "Dimmi almeno come ti chiami!"
       "Che importanza avrebbe."
       Il suo nome me lo disse due settimane dopo il primo scambio di battute. Si chiamava Dora, diminutivo di Addolorata. Me lo rivelò qualche giorno prima d'accettare di venire a casa mia. La raggiungemmo a piedi visto che abito a San Lorenzo, a circa trecento metri dal cimitero del Verano.
       I nostri corpi s'incontrarono al buio perché lei, prima di spogliarsi, volle tirare giù tutta la serranda e chiudere bene la tenda e poi la porta della camera da letto per bloccare la luce delle altre stanze. Facemmo l'amore a lungo e fu una cosa bella, intensa e insolita. Da troppo tempo eravamo a digiuno d'amore e di sesso. Dora aveva le labbra tenere che scottavano e mani curiose, instancabili.
       Non mi aspettavo di vedere, anzi di sentire, che nella stanza non ci si vedeva a un centimetro dal naso, un corpo così armonioso, nonostante i cinquant'anni suonati. Tradito dal suo modo fin troppo semplice di vestire, pettinarsi, truccarsi. Un bel seno, consistente, sì ma un po' avvizzito, però le gambe erano lunghe e sode. La pelle non proprio liscia come la buccia d'una mela, in alcuni punti un po' rasposa e con il tortuoso rilievo di alcune vene, eppure calda e morbida, quasi vellutata.
       Una mattina di febbraio mi sparò addosso la sua irrevocabile decisione: no, non dovevamo più vederci. Me lo disse con una voce dura, alterata. Era giunto il momento di dare un taglio alla nostra storia: sì, troppo tardi per amarci, troppo vecchi per fare certe cose. Che senso aveva stare assieme!
       Fin dall'inizio non mi ci era voluto molto a capire che aveva dei problemi, che era piena di timori per la nostra amicizia, che la storia d'amore che stava vivendo con me le dava intenso piacere eppure la metteva in crisi. Poi, dopo gli incontri a casa mia, erano sopraggiunti anche i rimorsi. Dora mi disse che ne aveva parlato con un sacerdote della sua parrocchia, una bravissima persona, e anche lui le aveva suggerito di troncare un rapporto inutile come il nostro. Bisogna avere la forza di stare alla larga dalle tentazioni!
       Provai a fermarla parlandole a lungo. La nostra non è mica un'avventura qualsiasi, Dora, ma una vera storia d'amore e l'amore non è mai inutile. Per questo occorre trovare il coraggio non di far saltar tutto ma di proseguire, sì, magari decidendo di vivere assieme, sotto lo stesso tetto. L'amore è così raro che tu non puoi buttarlo via come se fosse una cosa sporca, di cui vergognarsi.
       Tentai di accarezzarla, di stringerla tra le braccia, di baciarla così, per strada, d'impulso, come fanno i ragazzi. Lei mi respinse con forza, infastidita e allora sulle labbra di Dora vidi scolpito l'epitaffio della nostra breve storia d'amore. Capii che sarebbe stato del tutto inutile insistere, le avrei fatto solo del male.
       Chiudo gli occhi e me la rivedo davanti seminascosta dagli alberi. Cammina a testa alta, a passo veloce verso la fermata, eroicamente decisa a soffrire fino in fondo. Ad aggiungere al peso della sofferenza per la morte del marito quello della solitudine, della rinuncia all'amore, al piacere sessuale. Mentre guardo Dora che s'allontana sopraggiunge un TIR con targa tedesca che lento mi sfila davanti. Dopo non la vedo più, deve aver fatto in tempo a salire sul 19 che poco prima sferragliava in mezzo alla piazza, lo stesso tram che ora prosegue spedito verso via Nomentana, e lei abita da quelle parti.
       Con Dora non ci siamo più visti, né sentiti e io ho smesso di frequentare cimiteri. Ora da tre mesi, il martedì e il sabato sera, vado a un corso di danza latinoamericana.

maggio 2004


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