chi sono Alessio Brandolini
 
che cosa ho scritto

ROMA PER LE STRADE
Azimut, Roma, 2007


Antologia della critica




Contiene il racconto
Fumo a piazza dei Mirti


Fumo a piazza dei Mirti


Ecco, devo aver perso da qualche parte il piccolo quaderno giallo con i miei appunti o forse l'ho lasciato a casa, spero. Magari appoggiato sul comodino della camera da letto. Gli occhi mi bruciano da morire e da queste parti non c'è una fontana per raffreddarli con dell'acqua. Questo perché ho in mente Teresa e allora mi viene addosso una specie di febbre. Penso sempre alla mia donna, alle sue cosce, alle dolci e morbide mammelle gonfie di latte, alle sue mani, alla sua bocca grande e dolce che quando mi sorride e poi bacia la mia è come se volesse divorarla.

Oggi in piedi alle sei meno venti, dopo una pessima nottata per via dei continui risvegli di Andrea. Gli strilli del pupo arrivano all'ultimo piano e nel palazzo dove vivo, a due passi da piazza dei Mirti, si lamentano persino gli ultraottantenni, quasi del tutto sordi. E lei la trovo già in cucina, avvolta nella sua vecchia vestaglia rossa. La mia compagna dagli occhi belli e stanchi per via del sonno arretrato, della stanchezza, mi fa il caffé, sussurra il suo indispensabile buongiorno, tira fuori il latte dal frigo, spalma sulla fetta di pane un filo di burro e uno strato di marmellata alle ciliege. A volte accende la radio perché sa che mi piace ascoltare un po' di musica prima d'affrontare il traffico della città.

Come fa tutti i giorni, come se non avesse tre figli da accudire e l'ultimo, Andrea l'urlatore, non fosse venuto al mondo da poco più d'un mese.

Sì, ho un figlio a metà con Teresa, è il primo di tasca mia. Vorrei sposarla, la fanciulla quarantenne, ma da parte non ho un soldo, nemmeno un conto corrente bancario o postale, né un lavoro sicuro e tranquillo. Mi ritrovo soltanto due anni di contributi versati che quando sarò vecchio me la vedrò brutta, saranno davvero cazzi amari. Però adesso preferisco non pensarci. Con lei ci convivo e questo mi basta, anzi non mi sembra vero. Prima era mille volte peggio d'adesso e la sera bevevo parecchio, fino a ubriacarmi. Vino, grappa e soprattutto vodka: me l'aveva fatta conoscere Stefano, un polacco di Cracovia, un peso massimo alto due metri incontrato a un semaforo di via Torre Spaccata.

A volte questa storia me la racconto. Me la ripeto in ogni dettaglio per non dimenticarla, quando sto lì incollato al palo giallo, in piedi, in attesa che scatti il rosso. O anche quando prego, perché sì, io a Dio ci credo e non mi vergogno di dirlo se qualcuno me lo domanda. Da quando c'è lei, il mio amore, tutto sembra più bello e delicato, e i piedi giuro che fanno male di meno. Non vedo l'ora di tornarmene a casa, di riabbracciare lei, i suoi, i nostri figli. Non sarà un gran che, come dice qualche collega di lavoro, di strada e io ho cinque anni meno di lei, sì, ma Teresa cucina che sembra una cuoca di quelle vere e poi ha due figli già grandi, Lorenzo e Franco, di quattordici e quindici anni. Avuti con un altro, ora in gabbia, al carcere di Rebibbia dopo una rapina finita male a una banca di via Malatesta. Uscirà almeno tra quindici anni, se non ci saranno altri indulti. E poi lei con lui ha rotto da un pezzo e nemmeno i figli lo vedono o lo sentono spesso, giusto a Natale e al suo compleanno.

Io a quei due ragazzi ci sono legato visto che tifano la stessa mia squadra e non fumano per niente, studiano, e mi rispettano perché lavoro come un matto, un bue, e porto i soldi a casa e da un po' di tempo non mi ubriaco più, e non alzo mai le mani contro di loro né, ci mancherebbe, contro la mamma, cioè la mia donna, il mio grande amore.

Teresa l'amo parecchio, ma non so se amare vuol dire proprio quello che sento. Amare è una parola difficile che si usa poco da queste parti, forse nel mondo intero, non so. Io amo Teresa, amo tutto ciò che è suo e, quindi, anche i due suoi figli, anche se non sono i miei, perché ora è come se lo fossero.

Dall'aspetto non si direbbe che sono uno che si lega alle persone, con la faccia da scemo che mi ritrovo. Questo perché la vita che faccio non mi permette d'essere troppo gentile anche se a volte lo vorrei, mi piacerebbe. La sera torno distrutto, faccio fatica a sfilarmi le scarpe, a mettere il cucchiaio o la forchetta in bocca. Per riuscirci devo sorreggere il braccio destro con il sinistro. No, non ce la faccio a essere buono con tutti perché nella testa mi frulla sempre qualcosa di strano, un vortice che trita i pensieri.

Ho troppi rumori nelle orecchie: stridori di freni, clacson assordanti, sportelli che sbattono, tutti i vari tipi di sirene e l'ululato elettronico degli antifurti. E poi quello smog, amaro più d'un veleno, attanagliato alla trachea, ben stivato nelle narici, sparso sulla pelle, intrufolato tra i capelli. La notte non dormo bene perché mi alzo ogni tre ore per andare in bagno, per via d'una infezione alle vie urinarie che persiste da un paio d'anni e io non ho tempo per andare dal medico.

Faccio un lavoro insicuro, sì, un lavoro appeso a un filo, al fumo. Già, e abbastanza rischioso perché se vogliono potrebbero arrestarmi e poi mi farei qualche mesetto di galera: non sarebbe una tragedia, potrei riposarmi e leggere tranquillamente tutto il giorno.

Da sette anni sopravvivo vendendo sigarette di contrabbando che il lunedì, verso mezzogiorno, ritiro a Canosa di Puglia e poi distribuisco durante la settimana, tra la Tiburtina, Largo Preneste, Tor de' Schiavi e Centocelle. Un piccolo lavoro disonesto, è vero, ma questo o niente, e io afferro quello che passa il convento. E pensare che detesto parecchio il fumo e a casa mia non ci sono posaceneri, né accendini che in cucina la macchina del gas ha l'accensione incorporata: basta pigiare un tasto e scoccano scintille.

Ogni giorno tiro su dai cinquanta ai settanta euro. Non mi lamento, ma senza assicurazione né contributi che se sto male non so a che santo rivolgermi: prego e basta. Sono andato al lavoro con la febbre, con il mal di denti e una volta con il braccio sinistro ingessato. Mi riposo la domenica, si fa per dire, perché in casa ci sono sempre tanti lavoretti da fare. Però il pomeriggio m'incollo alla radio e seguo le partite e poi vado con Franco e Lorenzo al parco di Villa Gordiani, quello che via Prenestina taglia a metà, e giochiamo a pallone e lì ci aspettano gli altri che noi, in tre, facciamo già mezza squadra.

Una volta i due ragazzi li ho portati persino al museo di via Nazionale a vedere gli squali dentro un'enorme vasca di vetro, ma solo perché non pensavo che il biglietto fosse così caro, però sono stato contento lo stesso e loro, Lorenzo e Franco, erano molto felici che non gli sembrava vero perché nessuno li aveva mai portati da qualche parte, nemmeno al centro a fare una passeggiata e allora siamo scesi verso piazza Venezia e sono rimasti sbalorditi quando si sono trovati di fronte l'altare della Patria con la statua del re a cavallo. Così alta, così grande. Poi mi sono divertito a osservare le loro bocche spalancate quando li ho portati a Fontana di Trevi, davanti a tutta quell'acqua scrosciante. Come si guardavano attorno! impressionati da quella folla così diversa da noi, che scatta foto e sorride e parla in lingue diverse e lancia monete nella grande vasca che loro avrebbero voluto riacciuffare ma io gli ho detto che era meglio lasciar perdere, e poi i negozi intorno con le grandi vetrine cariche di roba elegante e le carrozzelle con i cavalli che stazionavano a piazza dei Crociferi e le ragazze seminude dai denti scintillanti.

Mi hanno detto grazie i due figli acquisiti, un paio di volte e la sera, alla madre, non facevano che raccontare di questo e di quello e a Teresa, che stava dando la poppata ad Andrea, le brillavano gli occhi, sempre più lucidi e a stento tratteneva le lacrime. Questo per me vuol dire molto, forse è la felicità allo stato puro perché ogni volta avverto come delle piccole scosse alla testa, sotto la radice dei capelli e poi ben dentro il cervello, e un caldo strano che veloce mi corre dal collo fino in fondo alla schiena. Tanto che poi quella notte non riuscivo a prendere sonno e mi preoccupavo perché la mattina dovevo alzarmi alle cinque e partire per la Puglia per il carico settimanale delle sigarette.

Il bambino venuto al mondo un mese fa oltre che figlio di Teresa è anche mio, e porta il mio cognome. Pesava quasi quattro chili quando è venuto fuori da dentro la pancia della madre e me lo hanno messo in braccio tutto sporco che io ero lì, presente, con il grembiule verde, copricapo e mascherina, in sala parto, con il ginecologo e l'ostetrica. Era buffo guardare quel batuffolo di carne generato da me e da Teresa perché lui, Andrea, non ti guardava negli occhi e dalla bocca chiusa veniva fuori saliva a palloncini e lei ogni tanto gliela asciugava con un bavaglino bianco e profumato.

Tutt'ora il piccolo mi fa tanta tenerezza, non mi ci sono ancora abituato e quando torno la sera lo prendo stretto tra le braccia e non faccio che guardarlo, come se mi ci dovessi riempire gli occhi e lo stomaco. E questo anche se avrei preferito che si chiamasse Giuseppe, come mio nonno paterno nato e morto a Canosa di Puglia, che ai suoi tempi andava a cavallo e detestava viaggiare sui mezzi a motore, persino sui treni.

Ogni tanto prendo appunti su un piccolo quaderno, il "Quaderno giallo", lo chiamo. Così, una specie di gioco, di passatempo iniziato da qualche anno. Per sentirmi più vivo durante le lunghe ore di lavoro. Oggi l'ho lasciato a casa, forse sul comodino della camera da letto, comunque spero di non averlo perso per strada. Se così fosse mi auguro che nessuno legga quello che sta scritto lì dentro, anche se non è nulla d'importante. Adesso avrei potuto scriverci qualcosa durante la pausa del semaforo verde, che qui dura a lungo e i pedoni che mi stanno accanto scalpitano perché vogliono attraversare la strada prima possibile. Loro le sigarette mica le comprano, forse per non portarsi dietro il peso, il fastidio della stecca infilata sotto il braccio.

Per esempio nel quaderno potevo raccontare di stanotte: ho rischiato di farmi male parecchio, e stando in casa. Era accaduto già altre volte, però mai in questo modo. Ci sono andato proprio vicino, ma nulla dirò a Teresa che magari si preoccupa e mi porta dal dottore, mi obbliga a fare tutte le analisi necessarie, e chissà quanto costano e quanto tempo ti portano via e io non posso non lavorare.

Dopo uno di quei risvegli improvvisi in cui si è presi dall'irresistibile voglia di pisciare e allora si va in bagno e a fatica si fanno quattro gocce, per via di quella maledetta infezione che ho alle vie urinarie. Insonnolito, nervoso e stanco attraverso di corsa la camera, passo in mezzo ai letti di Lorenzo e Franco, ed ecco che sterzo all'ultimo momento che altrimenti avrei preso in pieno lo spigolo della porta: l'ho solo sfiorato d'un millimetro a una velocità pazzesca.

Quando mi sono reso conto di ciò che era accaduto, ho avuto paura. Di sicuro mi sarei rotto la testa e il sangue sarebbe schizzato dappertutto. Forse per la gran botta mi sarei lesionato un occhio. Salvo per miracolo, allora.

Lassù, ne sono sicuro, qualcuno deve avermi protetto, forse le preghiere servono anche a questo.

Perché poi non so come avrei fatto a lavorare. Proprio ora che è ripresa la scuola e i ragazzi hanno bisogno di libri e quaderni che io li voglio far studiare fino al diploma e per questo adesso, per la famiglia, fanno ben poco. Solo il grande, Lorenzo, ogni tanto fa qualche lavoretto, aiuta il mio amico Nando nei piccoli traslochi. Di solito il sabato pomeriggio.

Non sono in attesa di fatti eclatanti, né di vincite al lotto. Ho Teresa con le sue mammelle gonfie di latte e questo mi basta, sarà pure un cibo povero ma è sostanzioso. Adesso, poi, ho un altro figlio e quindi dovrò fare in modo d'aumentare la vendita delle sigarette: la sera a piazza dei Mirti devo arrivarci tranquillo, soddisfatto. Ha solo 32 giorni, Andrea, e già costa di più dei due fratelli più grandi, Lorenzo e Franco, che ogni tanto, stufi della tivù o dei giochi spaccatutto alla playStation, se lo spupazzano un po' lanciandoselo come fosse una palla. Il neonato consuma montagne di pannolini che se potessi venderli a peso, così, pieni di merda, farei soldi a palate.

Ogni giorno macino decine di chilometri, spesso mi fumano i piedi. Tant'è che alle scarpe con il cuoio sotto ho fatto aggiungere le suole di gomma che altrimenti ne consumerei un paio al mese. Mi faccio i semafori principali della Tiburtina, Collatina, Prenestina, Casilina e zone limitrofe. La sera quando arrivo a casa sono più morto che vivo, ma di solito il peso dello zaino dove ripongo le stecche di sigarette è diminuito parecchio e il portafoglio, aprendolo, mi sorride.

Dopocena siedo un po' davanti alla tivù con le gambe frullate dalla stanchezza, gli occhi gonfi e arrossati e mi fanno ridere storto i politici e i professori che se ne stanno comodi e rilassati nelle poltrone di pelle, ospiti in uno dei tanti salotti televisivi. Parlano di continuo, sorridono spesso, ammiccano, fingono di litigare, s'aggiustano il nodo della cravatta, si toccano il rolex al polso sinistro. Sono esperti di tutto, ma l'esistenza di tanta gente non la conoscono per niente, né gli interessa sapere la vita di chi soffre, dei proletari e dei "piccoli borghesi", come li chiamano con disprezzo. E penso che se il ministro della sanità non la finisce di parlare male del fumo e di prendere provvedimenti a riguardo dovrò cambiare mestiere.

Non saprei proprio cosa mettermi a fare e di là in cucina c'è Teresa che lava i piatti e in camera da letto ci sono i nostri tre figli ai quali non deve mancare nulla. No, proprio nulla, se non il superfluo.


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